Andrea Zanzotto: i luoghi veri e i veri fantasmi della Grande Guerra
L’8 Settembre 1943 il soldato semplice Andrea Zanzotto è in libera uscita. Non ha ancora compiuto i ventidue anni e si trova ad Ascoli Piceno, dove è ritornato – dopo una breve assegnazione provvisoria nella vicina Chieti – per assumere l’incarico di scritturale in un deposito militare. Sta passeggiando per le vie della cittadina e recita tra sé, con il libro in mano, il X dei Sonetti a Orfeo di R. M. Rilke:
Euch, die ihr nie mein Gefühl verließt,
grüß ich, antikische Sarkophage …
ripetendolo nella traduzione italiana di Giaime Pintor, quando sente levarsi un urlo e poi un avvicendarsi di grida che portano la notizia dell’armistizio.
Questo è il ricordo che Andrea Zanzotto mi ha affidato, mentre raccoglievo le notizie biografiche per la Cronologia da anteporre alle opere raccolte nel Meridiano Mondadori Le poesie e prose scelte. Non verificabile, l’episodio ha il sigillo di un richiamo simbolico ulteriore, tale da far pensare a una sua rielaborazione. Nel ricordo, successivo di molti anni, infatti, il giovane militare è in raccoglimento dentro la poesia (l’immagine è analoga al ‘totus in illis’ di Orazio, Sermones I, 9, che verrà ripresa in uno dei suoi ultimi libri, Sovrimpressioni del 2001). La notizia della “resa” dell’Italia alle Forze Alleate, che comporta la rottura dei patti di guerra con la Germania, sconvolge il poeta e lo scaglia in una confusione di allarmi che urge e disorienta. Ma soprattutto accade che la voce della poesia, una delle più alte e pure d’Europa, è lacerata da un urlo senza parole. Seguono altre grida anonime. Generano smarrimento, il vuoto davanti a sé.
Da quel momento, per il poeta di Pieve di Soligo nulla sarà più come prima.
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Andrea Zanzotto è arrivato ad Ascoli Piceno, una piccola città delle Marche nell’Italia centrale, ai primi di febbraio del ’43, per frequentare il Corso Allievi Ufficiali di Complemento. È stato chiamato con la leva del ’22, dopo un anno di “rivedibilità” per insufficienza toracica e asma allergica (è nato il 10 ottobre 1921), durante il quale ha studiato e ha scritto, ma non ha voluto arruolarsi come volontario a causa delle tragiche vicende affrontate dai suoi coetanei in Grecia e in Russia.
Sappiamo che si è laureato il 30 ottobre dell’anno precedente e ha già un manipolo di poesie proprie che vorrebbe proporre per la stampa. Ma con l’avanzare della primavera ritorna prepotente l’allergia. Viene esonerato dal servizio e declassato. Svanita l’ipotesi del Corso Ufficiali, come soldato semplice sarà trasferito più volte. Fino a quando non gli verrà affidato un compito da scritturale con nuova assegnazione in Ascoli Piceno, gli tocca il servizio non proprio appagante di piantone.
L’isolamento, la malattia, la condizione in cui versa il suo Paese, contribuiscono a creare uno stato di forte alterazione nervosa. Per questo giovane brillante letterato e poeta, la vicenda del Fascismo è stata, come per molti altri della sua generazione, intessuta di esperienze personali ambigue. All’esempio del padre accusato di antifascismo e costretto alla marginalità sociale, si è contrapposta negli anni la vitalità culturale delle organizzazioni giovanili universitarie, dove il confine tra l’adesione al regime e la possibilità di agire criticamente dall’interno contro di esso si fa a volte indecidibile. La dittatura ha prodotto un sistema culturale gratificante, gli studi appassionano, pare addirittura che si possano esprimere malumori e critiche, e inoltre proporre la lettura di autori non certo amati dalla gerarchia. Ad Ascoli Piceno, invece, in pochi mesi tutto diventa più chiaro e doloroso. Mai Zanzotto si era allontanato dalla sua Pieve di Soligo per così tanto tempo (e mai più lo farà in seguito, fino alla morte avvenuta nel 2011). Ad Ascoli Piceno sono scritte, in quei mesi, le prime poesie desolate e ansiose che andranno a comporre la sua opera inaugurale, Dietro il paesaggio (1951).
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Non sappiamo che cosa è accaduto davvero nella mente del giovane poeta. Possiamo soltanto registrare uno stato progressivo di debilitazione nervosa.
Fino a quel momento la Patria è stata per Andrea Zanzotto il nucleo formativo di un formidabile monumento retorico. È nato vicino al Piave, il Fiume Sacro della riscossa e della vittoria del 1918. Nel corso di tutta la sua infanzia e dell’adolescenza, assisterà alla costruzione progressiva del mito eroico, attraverso ossari e cippi, monumenti e lapidi, discorsi scalpellati sul marmo e bandiere spiegate. Il Fascismo ha trasformato il vissuto di fame, fuga e umiliazione dell’interminabile periodo della guerra di posizione attestata in quei luoghi, in un fulgido esempio di amor patrio, di tenacia morale e di sacrificio per i più alti valori nazionali. Un’infanzia e un’adolescenza, ha raccontato Zanzotto, di continuo intessuta di commemorazioni, brani da imparare a memoria e compiti scolastici, dove la geografia della sua esistenza viene rimodellata in una sempre più pressante topografia eroica di “sangue versato” e di “memoria indelebile”. Dopo che è stato classificato come “meno atto” alla prima visita di leva, e dopo aver visto la condizione in cui si trova quell’esercito propagandato come potente e destinato a grandi imprese, uno sguardo diverso, più personale e lucido, lo porta a nutrire considerazioni chiaramente avverse alla dittatura e alle sue conseguenze belliche. Ma la Patria e il Dovere sono stati ben edificati dentro di lui, fino a quel grido che, l’8 settembre del ’43, verrà a lacerare l’ultimo, unico luogo “proprio” che possiede ancora nelle parole della poesia.
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Dopo l’8 settembre, come in un incubo ben sceneggiato, Andrea Zanzotto condivide la sorte di molti che, come lui, tra consegnarsi ai Tedeschi e aderire alla nuova Repubblica Sociale di Mussolini, non trovano altra scelta che quella di gettare la divisa, travestirsi, nascondersi, cercare la via di casa e vivere in clandestinità, fino a quando sarà il momento di aderire all’azione delle Brigate partigiane che nelle Prealpi intorno a Pieve di Soligo si stanno organizzando. L’incubo è quello di essere catturati e deportati. La perfetta sceneggiatura comporta tutte le ipotesi della falsa informazione, della delazione, dell’inermità e della speranza che nasce dalla disperazione.
Nella primavera successiva il quadro della situazione diventa più chiaro. E più terribile: il Quartier del Piave, che ha in Pieve di Soligo il suo luogo baricentrico, vede i giovani e male equipaggiati drappelli partigiani esposti alla caccia delle truppe tedesche di occupazione, ai fascisti della Repubblica Sociale assetati di vendetta, alla condizione precaria e imprevedibile della popolazione civile.
Ai proclami e ai ricatti seguono i rastrellamenti.
Solo nel 1954 uscirà sul “Popolo di Milano” uno scritto dove si narra direttamente l’esperienza di violenza e terrore di quei giorni, con il titolo Gli inermi. Centro ideale del racconto è la morte di un amico, Gino Della Bortola, protagonista di un’epica rovesciata dove l’individuo è vittima della storia e del precipizio in cui la storia ha inghiottito i valori umani. Ripubblicato con qualche lieve modifica nel 1964, nella raccolta di racconti e prose Sull’Altopiano, lo scritto cambierà titolo, che diventerà 1944: FAIER, dove ancora una volta un grido, con la scorretta grafia che riproduce in modo approssimativo il suono della parola tedesca Feuer in lettere italiane, mima l’esplosione della violenza.
Andrea Zanzotto parla di questo periodo della sua vita e delle sue conseguenze per la propria poesia come dell’“esperienza del terrore”. Le certezze sui valori umani, trasmesse attraverso le forme e i contenuti della cultura, subiscono un vero e proprio bombardamento, un “incendio”, una devastazione, dopo la quale la stessa lingua umana dovrà essere osservata e interrogata con nuovi occhi e nuove domande.
Non è un caso isolato, al contrario: l’esperienza e la conoscenza degli orrori perpetrati dall’uomo negli ultimi anni del conflitto lascerà ferite profonde in tutta Europa. Sono ferite dalle quali sorge un abissale stupore: come è stato possibile che una cultura così profonda, ricca e raffinata abbia potuto produrre tutto ciò? E, per Zanzotto come per molti altri, al vertice di questa cultura svettava la poesia.
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Andrea Zanzotto pone questo “terrore” come fondamento della sua ricerca poetica, poiché da qui nasce la necessità di segnare una discontinuità rispetto a tutto quello che l’ha preceduto, pure volendo salvare (e qui è la feconda contraddizione sua e di altri grandi poeti italiani, tra i quali va menzionato almeno Vittorio Sereni) non solo i pochi valori della vita di prima, ma quel “sé”, quella propria personale esistenza che pare patire una brutale cancellazione. Se Vittorio Sereni, ritornato dalla prigionia senza aver potuto partecipare al dolore e alle speranze di quegli anni tremendi, instaurerà un dialogo con se stesso e con il proprio tempo, contrapponendo il “sé” di prima a quello di dopo, Zanzotto trova nel paesaggio, nella Umwelt che l’ha accolto e costituito come individuo fin dalla prima infanzia, il motivo di evocazione poetica della continuità del “sé” e – insieme – di denuncia di una cesura, del rovesciamento della naturale, spontanea appartenenza, in obbligo di veglia critica e di costante interrogazione.
Dietro il paesaggio, quindi, l’“io” poetico interroga la lingua e le forme poetiche che lo muovono a incontrare l’ambiente della sua esistenza, così ricco e fervente, nonostante tutto, di vita, così capace ancora di accogliere emozioni e sentimenti.
Il miracolo del vivere dentro il piccolo paese immerso nella meravigliosa natura delle colline solighesi sarà celebrato e insieme interrogato a lungo da Andrea Zanzotto, affascinato e allo stesso tempo incredulo di quella Zauberkraft che ancora in Idioma, del 1986, tiene insieme nel tempo la “contrada” dove egli vive (la poesia s’intitola La contrada. Zauberkraft). Quella stessa contrada dove, dopo aver riscoperto e scritto per la prima volta nella storia il dialetto parlato in quel luogo (al di fuori da ogni convenzione grafica, grammaticale e lessicale) con Filò (1976), ora rievoca la voce di chi la storia ha cancellato e ammmutolito.
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Il 25 Aprile, giorno celebrativo della Liberazione, nel 1945, e della fine ufficiale della Seconda Guerra Mondiale in Italia, sarà più volte evocato dal poeta di Pieve di Soligo, in diversi momenti della sua opera. Egli, che suole dare alle stagioni un signifcato simbolico portante nella sequenza delle sue poesie e nella struttura dei suoi libri, non trascura di giocare sulla vicinanza di questa data con quella della Pasqua cristiana.
Se ancora nel 1963, scrivendo l’autobigrafico racconto-saggio Premesse all’abitazione, Zanzotto ricorda l’episodio narrato già in 1944: FAIER, segno di un trauma che non si attenua con il tempo, i riferimenti espliciti alla Seconda Guerra Mondiale sono rari e, quando ci sono, si accampano sotto il segno di quel 25 Aprile che vorrebbe salvare a ogni costo la speranza.
D’altra parte, i segni e i simboli della cultura popolare, nelle loro principali componenti contadine e cristiane, da sempre in Zanzotto presenza e tessuto su cui si ricama la sua partecipazione ai temi culturali più elitari, emergono con il passare del tempo dallo sfondo della sua opera fino a diventare temi palesi e oggetto di trattazione in prosa e in poesia. E proprio questo diventa un veicolo che porterà ad affrontare nuovamente il tema della guerra.
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Con la svolta degli anni Sessanta Andrea Zanzotto è impegnato, insieme alla gran parte degli intellettuali italiani, a far propria una messe di nuove conoscenze che erano state escluse dal classicismo e dal nazionalismo degli anni antecedenti la Seconda Guerra Mondiale. Linguistica, antropologia, psicoanalisi, paleontologia, insieme alle amate nozioni scientifiche della fisica, della geologia e della cosmologia, diventano oggetto di studio appassionato e formano un nuovo paradigma interpretativo, per il poeta di Pieve di Soligo, con il quale traguardare la sua condizione esistenziale alla luce della poesia nel luogo dove oramai è deciso a costituire la sua principale realtà quotidiana. L’immorare a Pieve di Soligo, le sue dichiarazioni pubbliche e private di non potersi letteralmente allontanare dalla terra che forma il suo paesaggio esistenziale, diventano leggenda, ben al di là della realtà, che lo vede mobile e disponibile a partecipare e confrontarsi con altre realtà (comprerà casa a Milano, a un certo punto, e i suoi movimenti tra università e convegni saranno in Italia ben più frequenti di quanto racconta la vulgata). È ben vero altresì che Pieve di Soligo diventa il suo osservatorio privilegiato, la porzione di mondo da vivere, sentire, analizzare in ogno suo momento e movimento, in ogni variabile e variazione sociale, ambientale, culturale e climatica. E diventa anche il luogo dove realmente difendersi da un presente che sente evolversi verso la dispersione e l’omologazione, sotto l’impatto dell’industria e del commercio che divorano il paesaggio. Fatto di Pieve di Soligo il centro ideale, la geografia esistenziale del poeta comprende, per sua stessa dichiarazione, un raggio di una cinquantina di chilometri, più o meno, a seconda dell’orientamento, che corrisponde per naturale disposizione ai luoghi della “Leggenda del Piave”, ovvero al territorio “consacrato” al Primo Conflitto Mondiale.
Quando, negli anni Settanta, si fisserà un primo assetto interpretativo della sua opera, dopo La Beltà del ’68 e fino almeno a Idioma, sbilanciato sull’adesione al pensiero dello psicoanalista francese Jacques Lacan, grazie anche al lavoro del suo più assiduo e autorevole critico, Stefano Agosti, sarà da cogliere in questa prospettiva la sintonia con il fatto che in Lacan vi è un primum linguistico, ovvero un ruolo fondante e dominante della parola che si sposa con l’operazione radicale sulla lingua che il poeta persegue in poesia. È anche da cogliere un ulteriore elemento di corrispondenza, dove Lacan acclude alla psicoanalisi i grandi temi della filosofia novecentesca, dell’antropologia e della politica.
L’opera di Zanzotto che squaderna la summa di tante diverse esplorazioni e raccoglie il frutto di tutte le esperienze precedenti, compreso il dialetto, è la pseudo-trilogia composta da Il Galateo in Bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986).
In Idioma ritorna esplicito il tema che riporta agli ultimi tempi della Seconda Guerra Mondiale, con una lunga poesia intitolata Verso il 25 Aprile, dove la chiara collocazione temporale della vicenda di cui si parla si sovrappone lessicalmente e stilisticamente a quanto già tematizzato in precedenza in Il Galateo in Bosco, in cui il centro del discorso era invece offerto dalla Prima Guerra Mondiale. Come se, nella distanza, l’esperienza personale della violenza, inutilità, crudeltà della guerra fosse un fattore di continuità con la memoria ereditata. Come se si trattasse di un’unica guerra che nella sua esperienza di bambino, di giovane e poi di uomo maturo, ha lasciato distinte le sofferenze di tutti e i contraccolpi personali da una retorica della storia che, seppure mutando i riferimenti, le ha ricoperte di significati che il poeta non riconosce validi e, anzi, individua come una forma di tradimento della realtà vissuta. Arriverà a dichiarare, a scapito della storiografia sempre orientata ideologicamente, che solo la poesia costituisce la vera storia degli esseri umani.
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Proviamo adesso a dare l’aspetto di un disegno alle tracce fin qui disseminate: 1) il bambino meraviglioso (oggetto di meraviglia per intelligenza e memoria: si legga il racconto auto-fictional Ero farfalla in Sull’Altopiano), il giovanissimo poeta esposto all’urto della propria grande sensibilità, il brillante laureando che frequenta tanto il GUF (Gruppo Universitario Fascista) padovano quanto le cerchie di intellettuali dissidenti, è nato e cresciuto dentro la geografia di un culto eroico, secondo gli ideali del sangue e del dovere patrio, che ha il Piave come direttrice principale ed espande la sua leggenda nei luoghi e nei paesi vicini. 2) L’Allievo Ufficiale Andrea Zanzotto, laureato in Lettere e poeta pronto all’esordio, vive il declassamento militare, l’isolamento, il trauma dell’Armistizio, della fuga, della clandestinità e, infine, è testimone dei rastrellamenti, delle violenze e dell’insensata brutalità che accompagna gli ultimi anni di guerra nel suo paese natale, diventato centro attivo della Resistenza. 3) Mentre la sua poesia è fortemente segnata da questa esperienza, che lo porterà a rivedere contenuti e forme della propria espressione (l’esordio ufficiale avviene più tardi, infatti, nel 1951), sono rari e personali i riferimenti tematici a questo “indicibile” evento. E sempre vi sarà – al di là del personalissimo rivolgersi, questo sì costante, a qualche amico di quegli anni – uno schermo che ricopre e deforma questi fatti, inabissandoli (e ponendoli en abyme) dentro il discorso poetico. 4) L’approfondimento delle ragioni della propria poesia porta Zanzotto a costruirsi un complesso dispositivo di saperi, operazione non priva di carattere difensivo, come non scevra di carattere difensivo è l’assolutizzazione della propria appartenenza al paese natale, Pieve di Soligo, come luogo totale della propria poesia e della propria esistenza. 5) Mentre costruisce nel tempo la parte più esplorativa e sperimentale della propria opera (dalla rivisitazione dei classici all’impiego del dialetto, dalla disarticolazione grammaticale alle sublimi metafore cosmiche) se pure impliciti o inabissati nel discorso poetico, i temi relativi alle due Guerre Mondiali non sono mai affrontati direttamente nel profondo dissidio tra verità e retorica, pur essenso questo il vero fattore di erosione del discorso poetico zanzottiano fino alla trilogia (che costituisce anche la sua vera, profonda originalità poetica rispetto ai suoi colleggi, anche grandi, che lavorano nei suoi stessi anni). Detto altrimenti, quella “sfiducia” nella lingua che i critici hanno attribuito a Zanzotto come fondamento della sua poesia è radicata nell’insoddisfazione e nel sospetto per il discorso pubblico che ha trasformato l’esperienza vissuta dopo l’8 settembre in una narrazione politicamente coerente – là dove invece si è aperto l’abisso del non senso – e questa insoddisfazione e questo sospetto comprendono anche le posizioni di molti scrittori, poeti e intellettuali italiani.
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All’apparire di Il Galateo in Bosco, nel 1978, ecco che il tema della guerra invece prorompe, anzi, diventa il nucleo tematico forte di quest’opera.
Non so se qualcuno si è già chiesto come mai, in un poeta che così profondamente ha patito, dichiarandolo in mille modi, il trauma della Seconda Guerra Mondiale, nel momento in cui scrive apertamente della guerra sia della Prima, quella non vissuta, che tratta diffusamente.
Un ragionamento possibile, e comprovabile in parte nei fatti, è che Andrea Zanzotto è arrivato, a quel punto, a fornirsi di una raffinatissima strumentazione che gli permette di affrontare il discorso per lui scottante (verità vissuta vs retorica della storia) a patto di lavorare su diversi livelli di distanza storica, senza cioè affrontare direttamente un complesso di fatti e di esperienza che rimane alimento e sorgente, ma ancora troppo urticante per poter essere maneggiato in poesia.
Anzi, si potrebbe quasi dire che Il Galateo in Bosco, se non il più facile, è strutturalmente il libro più esplicito tra tutti quelli che Zanzotto ha scritto, formato com’è da contrapposizioni esemplari.
È un libro però che contiene, insieme alla dichiarazione di quello che Sigmund Freud ha definito “il disagio della civiltà”, anche una meditazione impietosa sulla Natura e sulla natura umana. Non ci si lasci ingannare dai tratti a volte comici e spesso sorridenti del testo. È un sorriso leopardiano, dove non si fa che constatare la fragilità dell’essere umano, la sua vuota superbia, la pochezza delle sue “grandi” aspirazioni, e insieme la forza cieca della natura che imperturbabile lavora con i suoi strumenti animati e inanimati, attuando le sue implacabili leggi.
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In uno scritto del 1987, intitolato Tentativi di esperienze poetiche (Poetiche-lampo), Zanzotto afferma che di frequente i titoli delle raccolte poetiche rappresentano una vera e propria, estremamente condensata, indicazione della poetica dell’autore, ovvero una presentazione metaforicamente densa dell’intero contenuto del libro.
Se proviamo ad applicare questa formula allo stesso dichiarante, scopriamo che i due termini semanticamente autonomi che compongono il titolo Il Galateo in Bosco, sono davvero i poli opposti su cui si incentra l’intero libro. D’altra parte, la nozione di polarità, l’inclinazione a vedere comprese le differenze e le opposizioni in uno stesso campo di forze, è una caratteristica ricorrente e fondante della riflessione zanzottiana, presente soprattutto quando si propone in veste di critico.
Complice una certa voga del tempo, che vede negli anni Settanta, con l’aumento di interesse per i saperi semiologici, la rivalutazione e riconsiderazione della retorica come oggetto di studio e come strumento operativo nel Cinquecento e nel Seicento, Andrea Zanzotto fa del manualetto di Giovanni Della Casa, Il Galateo (1558), il punto di riferimento per incrociare una serie di spunti fondanti e collaterali. Monsignor Della Casa (al culmine della carriera arcivescovo di Benevento e compilatore, un decennio prima del Galateo, dell’Indice dei Libri Proibiti di Sacra Romana Chiesa) fu rimatore eccellente, ancora oggi presente nelle antologie scolastiche, oltre che uomo di potere, ma deve a quel manuale, il cui titolo ha creato un’antonomasia, la sua maggiore fama. Le buone maniere in società, a tavola e nelle occasioni di protocollo, nonché nelle varie situazioni della vita (con le donne, i bambini, i cani, i cavalli e gli stranieri delle diverse nazionalità) vengono ancora oggi definite da qualche anziana zia con quel nome, che per secoli si è tramandato: il galateo. Il galateo, quindi, è un codice di comportamento sociale, che nel manuale viene insegnato da un maturo precettore a un giovinetto. L’importante è questo: si tratta di una codificazione dei comportamenti, atti a prevenire – prima ancora delle brutte figure – la violenza, come bene ci hanno spiegato Norbert Elias e René Girard. Un codice che però, allo stesso tempo, impone violenza alla spontaneità, da un lato, e dall’altro ratifica la violenza sociale politicamente strutturata in poteri e privilegi. Per estensione, quindi, sono galatei tutti i codici di comportamento, secondo l’interpretazione zanzottiana, da quello militare a quello sportivo, nonché, senz’altro, quelli che regolano la poesia e la letteratura in generale. Inoltre, se il codice di comportamento viene definito anche “etichetta”, ciò si deve al suo essere semplicemente un diminutivo: una “piccola etica”. Ma l’etica rinvia al comportamento come costume, anche, e abitudine/attitudine, che può comprendere leopardianamente l’etologia e finanche le vicende della materia (geologia, meteorologia, eccetera). Quindi l’intero universo, nella sua versione regolata, ovvero nelle sue strutture razionalmente descrivibili, è composto di infiniti galatei, di codici che dettano regole, si intersecano e si contrappongono. Chiaro che in questo campo di tensioni, come segnala il testo zanzottiano, possono sorgere “questioni di etichetta” e non solo e non sempre di etichetta “cavalleresca”.
Al polo opposto del Galateo vi è il Bosco. Da sempre immagine in contrasto con quella della città, il bosco rappresenta il versante antifrrastico della vita urbana ordinata nei suoi codici interni e difesa dal suo perimetro di mura. Il bosco è la forza incoercibile della vita, il disordine, il selvatico, l’animalesco, il terrificante. Nel bosco la vita animale e vegetale nasconde il suo fondo oscuro. Nel bosco sparisce l’orizzonte e i sentieri diventano itinerari di conoscenza personale, di esperienza dell’errare (si innesta, con e senza ironia, il noto tema heideggeriano). Nel bosco anche il bruco masticando lavora a un compito necessario in seno alla natura, poichè per la natura il divorante e il divorato, il nutrimento e la deiezione partecipano di un lucreziano incessante processo di produzione e distruzione della vita.
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Il Galateo fu composto da Monsignor Della Casa nell’antica abbazia situata ai piedi di quel Montello che, a poca distanza dal Piave e da Pieve di Soligo, fu uno dei teatri più atroci della Prima Guerra Mondiale. Il Montello che fu un grande bosco, prima che la devastazione della guerra di posizione lo rendesse uno spelacchiato, calvo terreno, disseminato di buche di esplosioni e di residuati bellici. Quello stesso Montello che fu in seguito dotato di strade artificiali, ortogonali, là dove un tempo vi erano sentieri, e in quelle porzioni geometriche di terreno ricrebbe rigoglioso di alberi e arbusti, nutrendosi avidamente – dicono alcuni – di tutto il sangue versato di cui la terra era stata intrisa.
Il “galateo” e il “bosco” sono sempre stati vicini, dialetticamente attivi, fino a che la violenza che ha distrutto ogni galateo ha cancellato anche il bosco. In seguito, il bosco è ricresciuto, ma non più lo stesso, come anche i successivi galatei sono diversi, segnati dalla violenza della tecnica e della sopraffazione.
Guerra di materiali, prima guerra dove emergono i prodigi della scienza e della tecnica moderne, il Primo Conflitto Mondiale determina il tempo che verrà dopo, compresi la Guerra Mondiale successiva, secondo Zanzotto, la guerra fredda, la corsa agli armamenti, la conquista-violazione dell’amata luna.
È nel corso di questo scontro che le questioni di etichetta cavalleresche ancora vigenti trovano la più atroce smentita. Ed è per questo che le parole del Bollettino della Vittoria, emanato dagli alti comandi dell’esercito a conflitto conchiuso, questo altisonante tentativo (peraltro ben riuscito) di avviare il processo di restituzione eroica di un’etica dei valori patrii, viene smembrato fino ai suoi infimi grafemi e disseminato nelle pagine del Galateo in Bosco, con feroce ironia, quasi come un feticcio di cui si teme ancora il potere.
Ma è un’ironia che si rivolge all’intero agire umano. Anche al fare poesia: la sezione del libro intitolata Ipersonetto presenta sedici sonetti perfettamente eseguiti in una lingua che sfida la tradizione sul filo del gioco e dell’elusione. Sono quattordici sonetti, come sono quattordici i versi del sonetto, più uno introduttivo e uno di congedo. Il sonetto, luogo della codificazione della tradizione e della lingua poetica italiana, forma di cui si avvalse lo stesso Della Casa, produce in questo libro un micro-universo a sé, se pure in dialogo con le altre parti dell’opera: l’ipercodice impossibile, dove la forma tradizionale dovrebbe accogliere la vastità esplosa di mille differenti temi e motivi, ma riesce a farlo soltanto nei modi di un dettato allusivo e ironico, giocoso e autopunitivo.
Altrove nel testo vi saranno altri esempi di forme poetiche del passato, popolari e colte, fino al caso limite della ristampa anastatica di un brandello di testo secentesco.
Non mancherà, in questa ridda di contrapposizioni, lo scambio di ruoli tra il bosco come ritiro dal mondo, serenità riacquisita, riparo – un incipit di Della Casa recita:
O dolce selva solitaria, amica
de’ miei pensieri sbigottiti e stanchi …
e l’assalto della modernità del tempo libero e dello svago (il motocross, le seconde case abusive), che devasta a sua volta il paesaggio quanto l’arrembante produzione industriale. E, in questi costanti, ironici rovesciamenti, non mancherà neppure la riduzione della poesia a secrezione, sostanza espulsa, deiezione del sistema produttivamente comunicativo della lingua, contrapposta alla richiesta di perfezione formale della poesia stessa.
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Possiamo dunque leggere Il Galateo in Bosco anche come una mappa generatrice di cartografie stratificate, dove i sistemi di codificazione più diversi, i linguaggi più diversi, trovano rappresentazione. Dai cartelli stradali disegnati a mano, ai simboli delle carte da gioco, dalla cartina che mostra la disposizione degli ossari lungo la direttrice del Piave al “fumetto” del cartoon, alle tracce di ideografia orientale, fino ai diversi caratteri a stampa, allo stemma araldico e al simbolo matematico. E poi, come già detto, i sonetti, le tracce di antichi versi, i residui smembrati del Bollettino della Vittoria, i proverbi, i riferimenti alle discussioni secentesche sull’etichetta, i versi in dialetto, le allusioni filosofiche e scientifiche, rappresentano altrettanti riferimenti a un altro ordine di codificazione, che a quello fa da sostrato e si sovrappone in un diverso ordine temporale. Come in un diverso ordine temporale una terza mappa, quella biologica e geologica, del nutrimento e della deiezione, della riproduzione e della violenza, interagisce con le prime due.
L’impossibile mappa che Il Galateo in Bosco vorrebbe tracciare con tutti i mezzi leciti sulla pagina, senza far uso di fotoriproduzioni di immagini, è quella che racchiude anche la dimensione del tempo. Un tempo che ha diverse forme di durata, diversi caratteri di coesistenza, dove l’esperienza personale, il tempo vissuto, sono legati all’istante attraverso il gesto della creazione poetica di linguaggio, ovvero nel momento in cui la loro parola collega il corpo con l’apertura del presente in uno specifico luogo-ambiente. Fuori da questa dimensione, il moto incessante della natura e i simboli irrigiditi dalla cultura configurano una dimensione in cui il soggetto versa in una costante, se pure “critica”, inautenticità.
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La Prima Guerra Mondiale ha però nel testo del Galateo in Bosco anche una rappresentazione del conflitto. La tematizzazione della relazione profonda e totale tra il luogo e la violenza bellica viene costruita, all’inizio, per passaggi inavvertiti: si esplora dall’interno del ricordo, prima, avvalendosi di un momento dell’infanzia dove proporre l’effimera presenza del circo in paese (il circo, uno dei mondi più codificati, viene contrapposto alla labilità del ricordo, mentre si predispongono le tracce lessicali – circhi, circoli, doline, precipizi – per affrontare le forme analoghe e opposte della natura e delle conseguenze delle bombe sulla natura). Vi è, subito dopo, una poesia (Gnessulògo), dove il bosco è oggetto di un racconto e/o descrizione sorprendente, alla quale ci dovremo abituare nel resto del libro, dove per zoomate profonde e sospensioni stratificate dell’osservare noi vediamo livelli di esistenza del bosco stesso ben differenti da quelli della dimensione abituale dello sguardo (e della lingua). Al terzo componimento si dipana, tra diversi livelli temporali di approccio, una storiella popolare, comica e lieve, se non fosse che diventa oggetto frequente di espansione del dettato poetico nelle sfere della Storia, nelle profondità della vita naturale del bosco … che all’improvviso si interrompe – storiella e storia si interrompono insieme:
L’irruzione della violenza bellica “trancia” la pellicola in cui si iscriveva, se pure con molte acrobazie, un racconto che voleva tenere insieme la Storia, le minuzie di una piccola comica vicenda umana e la vita naturale dell’ambiente in cui si svolgevano. È un suono che assorda, che riempie la geografia, che ammutolisce.
Segue una pagina che riporta una cartina geografica con i punti di riferimento dei luoghi dove sono posizionati gli ossari lungo la linea del Piave.
Segue una riproduzione-fotocopia mal eseguita e in parte illeggibile di una canzone sentimentale a sfondo patriottico dedicata al Piave.
L’individuazione del tema del conflitto inizia appena più avanti, con l’esplicita menzione dei lasciti commemorativi e celebrativi dell’eroismo:
Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto.
Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto.
Incessante sarà da qui in poi – e oramai il fruitore non potrà fare a meno di assoggettarsi al complesso patto di lettura instaurato dall’autore – il gioco di controbalzi e rinvii, discese e ascese tra i tre livelli di mappature sopra descritti, dove la lingua poetica attraversa e interroga un’infinità di diversi registri, di limiti grammaticali e di occorrenze lessicali.
Il processo di significazione, entro il quale il lettore viene fagocitato, è quello di un’ironia mai dismessa, dove tutto commenta e si contrappone a tutto, che permette però una rappresentazione multidimensionale della realtà, e produce il senso di un punto di vista umano, unico, dell’uomo nella parola, ricco di accenti di commozione e di incanto, ma istantanei e come bruciati nell’istante stesso della loro pronuncia-vissuto.
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In anticipo netto sulle posizioni che ancora adesso sono appena accennate dal discorso pubblico su questi argomenti, Andrea Zanzotto interpreta la Prima Guerra Mondiale come il teatro dove si rappresenta la “prima” del grande scontro della natura (ambiente) e dell’uomo moderno, che ha acquisito conoscenza e potenza oltre il proprio controllo e oltre la propria capacità antropologica di assorbirne le conseguenze simboliche. Nella complessa organizzazione dell’opera, assistiamo all’interruzione e allo slittamento dei tradizionali precedenti criteri di giudizio e di assegnazione del valore, le cui codificazioni sono svelate e messe tra parentesi dalla nuda esistenza, più nuda di quella della natura, là dove la quantità di violenza che l’uomo riversa su se stesso cancella anche l’ambiente della sua vita e con esso (orribile accorgersene!) la sua stessa umanità. Viene quindi in evidenza che la cultura, la scienza, la civiltà, hanno sempre taciuto la loro dipendenza dalle condizioni ambientali in cui sono fiorite, ovvero dal rapporto con la loro profonda e irrinunciabile natura terrestre.
E, infine, la pietà. La pietà che è dovuta a ogni forma di vita, per la vita e per la morte a cui è destinata. La vera pietà, dove si depongono ideologie e concetti, convinzioni e progetti, per accogliere nel proprio presente le memorie, le sofferenze, anche la pochezza e l’imbecillità di quelli che, come noi, hanno nella parole il soffio della creazione e della mortalità. Una pietà che spunta come l’erba di nuovo cresce dopo la devastazione delle tonnellate e tonnellate di bombe che hanno reso il Montello un deserto di fango. Quella stessa pietà che dall’oscurità inconscia della lingua, si mostra a volte e vibra nel suo più splendente verde tra i versi devastati dall’ironia di un’intelligenza critica feroce, dove anche la dolcezza e la verità di un momento subiscono, nell’immediato momento successivo, la smentita di altro, interrogante, pensiero.
Disseminate tracce, frammenti di un discorso che non può che interrompersi di continuo, le pagine del galateo in Bosco compongono un disegno evidente dove i fantasmi del vissuto personale, in piena gioventù, incontrano i fantasmi ereditati dal precedente confitto sui luoghi veri della violenza e della morte: mentre ai primi fantasmi è stata data una veste eroica, fino a divenire un monumento lontano nel tempo e dal senso del presente, i secondi fantasmi, o quasi fantasmi-ectoplasmi, i viventi che hanno attraversato quell’esperienza, vivono in quel vero luogo, parlano, cercano un vero idioma che ancora non hanno trovato.
Il luogo è lo stesso, la devastazione ambientale dell’industria che produce oggetti e ci vende il nostro tempo libero evoca ancora, per la terza volta, in quegli stessi veri luoghi, i fantasmi dell’infanzia e quelli della giovinezza, ma il poeta non concederà loro mai più di diventare soggetto di persuasione, monumento retorico di finti valori. L’esperienza indicibile della giovinezza è diventata poesia attraverso lo smantellamento dei miti eroici edificati nel tempo della sua infanzia, alla luce del presente nuovo conflitto, quello dell’uomo contro la sua troppo potente capacità di trasformare l’ambiente dove vive e dove soltanto può trovare la definizione della propria umanità.
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Nota
Sessant’anni di scrittura (poesie, racconti, interventi teroici e critici) di uno dei più significativi poeti del secondo Novecento europeo hanno prodotto una grande quantità di materiali d’interpretazione e commento, che in anni più prossimi è diventata enorme. Rinuncio quindi a ogni tentativo di bibliografia, se pure con dispiacere, in particolare quando penso a tutti i giovani e giovanissimi che hano mostrato interesse e intelligenza per il poeta di Pieve di Soligo. Credo però che sia ancora un buono strumento per accostarsi in modo non occasionale all’opera di Andrea Zanzotto il volume Le poesie e prose scelte uscito nella collana I Meridiani di Mondadori nel 1999, a cura di Stefano dal Bianco e Gian Mario Villalta, con due ampie e valide prefazioni firmate da Stefano Agosti e Fernando Bandini. Nel 2011 è uscito, inoltre, a cura di Stefano Dal Bianco, il ponderoso volume Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, Oscar Mondadori, che raccoglie, come indica il titolo, l’intera produzione poetica dell’autore fino a quel momento edita. A cura di Gian Mario Villalta, segnalo inoltre la raccolta degli Scritti sulla letteratura, Oscar Mondadori 2001, che illustra l’opera critica e gli spunti di poetica e di teoria letteraria del poeta. Moltissimi gli interventi successivi, usciti in volume e in rivista, di cui si potrà trovare riscontro nelle bibliografie aggiornate per la cura di Niva Lorenzini e Francesco Carbognin in occasione di momenti convegnistici realizzati in Italia e all’estero in anni più recenti.
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