Tratta internazionale e sfruttamento lavorativo della comunità punjabi in provincia di Latina
Marco Omizzolo
Introduzione allo sfruttamento lavorativo dei migranti impiegati come braccianti agricoli nelle campagne italiane
In Italia, donne e uomini spesso originari di paesi stranieri, in alcuni casi anche richiedenti asilo o rifugiati, vengono impiegati, a volte attraverso intermediari (i caporali) legati alla criminalità organizzata, come manodopera in attività agricole particolarmente faticose e dannose per la loro salute. Esposti ad un continuo ricatto occupazionale e costantemente intimiditi, essi precipitano spesso in condizioni prossime alla riduzione in schiavitù. Situazioni e condizioni di lavoro che non sono marginali o eccezionali nel sistema agro-industriale ma espressione di un sistema di produzione e commercializzazione fondato sulla complicità strumentale e strutturale di diversi soggetti, come il datore di lavoro, il caporale, il trafficante, impiegati pubblici, liberi professionisti ed esponenti di clan mafiosi. Si compone una consorteria criminale finalizzata ad ottenere profitto e potere realizzata non in antitesi ma all’interno del sistema di produzione economico vigente. Secondo le stime del rapporto Agromafie e caporalato della Flai-Cgil solo in Italia ci sono circa 400 mila lavoratori che ogni giorni subiscono forme varie di ricatto e sfruttamento o sono esposti al caporalato1, di cui circa l’80 % composto da migranti. Sono invece circa 100 mila i lavoratori e le lavoratrici in agricoltura sottoposti a condizioni di grave sfruttamento lavorativo. Molte ricerche lasciano poco spazio a dubbi: il 62 % dei lavoratori stagionali migranti impegnati in agricoltura non ha accesso ai servizi agricoli essenziali; il 64 % di loro non ha accesso all’acqua corrente mentre il 72 % presenta dopo le attività di raccolta malattie che invece prima non presentava (malattie osteomuscolari). In Italia si contano circa 80 distretti agricoli a rischio in cui il caporalato è pratica comune; di questi, 33 presentano per i braccianti stranieri condizioni di lavoro “indecenti” e in 22 forme di grave sfruttamento lavorativo. Il caporalato si basa sulla sottrazione di parte dei salari dei lavoratori: si può arrivare a quasi il 50 % del loro reddito per arrivare ad un salario giornaliero che varia tra i 25 euro e i 30 euro al giorno, per una media di 10-12 ore di lavoro. I caporali inoltre impongono tasse che gravano ulteriormente sui redditi dei lavoratori migranti: 5 euro per il trasporto, 3,5 euro per il panino e 1,5 euro per ogni bottiglia d’acqua consumata. Alcuni lavoratori possono essere anche obbligati a pagare un affitto per un posto letto in aree particolarmente malsane (ghetti). Il costo del caporalato è sopportato anche dallo Stato in termini di danno erariale: circa 600 milioni di euro vengono sottratti ogni anno al fisco a causa dell’intermediazione illecita e dell’evasione contributiva in un contesto dove l’economia sommersa nel settore agricolo vale circa 9 miliardi di euro l’anno. In definitiva, sembra delinearsi un capitalismo predatorio fondato sulla tratta internazionale e il grave sfruttamento lavorativo. Filiere produttive, distributive e commerciali che, in ambito agricolo e non solo, sono governate o condizionate da organizzazioni criminali nazionali e transnazionali, anche mafiose, fondate sull’intermediazione illecita di manodopera e sulla tratta internazionale, anticamera dello sfruttamento e della riduzione in schiavitù2. La ricerca scientifica, insieme all’attività di alcune associazioni3e sindacati, ha fatto emergere casi drammatici, tra i quali braccianti italiani e stranieri deceduti per le loro estreme condizioni di lavoro, a fronte di salari bassi. Ciò è accaduto in particolare in Puglia, in cui vari lavoratori e lavoratrici non hanno resistito alle condizioni di lavoro imposte e sono deceduti. Sono donne e uomini impiegati in un deserto di solitudine quale espressione tipica della nuova impresa dello sfruttamento4 a volte assunta come costante immutabile del modello di sviluppo vigente, inseriti in un quadro normativo non adeguato a comprenderne la complessità e ad individuarne le relative responsabilità. Sono da ricordare anche i ricatti e le violenze sessuali dei caporali e di alcuni datori di lavoro nelle campagne della provincia siciliana di Ragusa nei confronti delle lavoratrici agricole migranti (soprattutto rumene), il caso, come verrà in seguito analizzato, del doping usato dai braccianti punjabi della provincia di Latina per sopportare lo sfruttamento estremo loro imposto nei campi agricoli, spesso somministrato con la complicità del datore di lavoro e del caporale, e le violenze che insieme alle truffe molti braccianti quotidianamente subiscono. Molti di questi episodi sono continui nel tempo e non episodici ma strutturati nel sistema di produzione agricolo globale. Comportamenti, interessi e prassi che definiscono i contorni di una nuova organizzazione del lavoro agricolo che coinvolge tutto l’Occidente e non più solo i paesi meno economicamente sviluppati; casi analoghi a quelli denunciati in questo saggio sono stati rilevati anche in Spagna, Romania, Germania, Grecia, Francia e Inghilterra, oltre che negli Stati Uniti, dove il relativo modello californiano è fondato sul caporalato e lo sfruttamento della manodopera migrante, soprattutto messicana. Indagare questo fenomeno partecipando direttamente alla sua dinamica, per esempio attraverso metodologie di ricerca come l’osservazione partecipata, significa fare esperienza della sua natura sistemica e intimamente capitalista, da cui deriva la riproduzione, nel contempo, di metodologie di reclutamento e gestione dei braccianti migranti tipicamente criminali, quando non direttamente gestite dai clan mafiosi. Secondo il sociologo Nocifora5, ad esempio, i lavori agricoli
in ampie zone del Mezzogiorno, ai prezzi stracciati che il controllo camorristico del commercio all’ingrosso impone, non sarebbero possibili, oggi, senza la disponibilità di grandi masse di manovalanza priva di ogni diritto, che dorme e mangia dove può e quando può, pronta a scappare al più piccolo segnale di controllo imminente.
La formazione di sistemi di reclutamento e sfruttamento formali o implicitamente accettati è condizionata, per quanto riguarda l’Italia, dalla rinnovata ambizione di profitto di una parte del sistema imprenditoriale, incentivata dalla natura iper-competitiva della globalizzazione e spesso soddisfatta dal governo italiano con alcune disposizioni in materia di lavoro (Jobs Act ad esempio), che hanno concorso a limitare la libertà della forza lavoro e dei sindacati. Ciò avalla l’ipotesi che la riduzione o mantenimento in servitù o schiavitù dei braccianti migranti, cioè dello sfruttamento organizzato compreso nel processo produttivo formalmente organizzato, non ha più i connotati di un’anomala eccezione limitata ad ambiti lavorativi specifici o geograficamente collocati, connotati etnicamente o ispirati solo dalla particolare segmentazione del mercato del lavoro. Si tratta, invece, o almeno questo è il rischio, di un’opportunità economica concessa dal governo nazionale, nell’ambito di una nuova divisione internazionale del lavoro, al sistema imprenditoriale, quale contropartita per la cessazione dello sciopero degli investimenti industriali e finanziari e il rientro dei capitali investiti all’estero attraverso la delocalizzazione delle proprie attività.
La comunità punjabi in provincia di Latina: origini di una comunità di “sole braccia”
Lo studio della comunità punjabi in provincia di Latina è il risultato di quasi dieci anni di ricerca-azione, di approfondimento teorico, di osservazione partecipata e inseguimento di ogni traccia e ipotesi di ricerca volta a cercare di indagarne l’origine e l’organizzazione sociale. La metodologia adottata è stata quella dell’osservazione partecipata e interviste in profondità, insieme ad elementi specifici di sociologia visuale applicati anche in Punjab (regione nord occidentale dell’India da cui proviene la maggior parte dei membri della comunità pontina), dove si sono continuati gli studi con riferimento al contesto di origine del relativo flusso migratorio e al ruolo delle relative famiglie. Per circa tre mesi (giugno-agosto 2010) è stato possibile svolgere l’attività di bracciante agricolo al seguito dei lavoratori punjabi nelle campagne della provincia di Latina, così da individuarne, osservarne, comprenderne i sistemi di reclutamento e sfruttamento ai quali essi sono sottoposti, farne esperienza e valutarne la portata e articolazione. Un’esperienza complessa, intima e nel contempo sociale, emotivamente ed umanamente difficile, capace di mettere in gioco articolazioni e snodi della propria personalità insieme a rischi legati all’esperienze empirica dell’azione di ricerca territoriale.
La comunità indiana si insedia in provincia di Latina coi primi punjabi (coloni) a partire dalla metà circa degli anni Ottanta del Novecento, in particolare nelle città di Latina, Sabaudia, San Felice Circeo, Pontinia, Terracina e Fondi, dove è sviluppata un’agricoltura intensiva, spesso serricola, praticata su terreni pianeggianti, con un’organizzazione aziendale diffusa e composta da cooperative agricole o aziende di piccole, medie e grandi dimensioni. Sono aziende impegnate soprattutto nel settore ortofrutticolo, florovivaistico e vitivinicolo, sostenute da un sistema di raccolta e distribuzione dei prodotti agricoli capillare in cui è centrale il Mercato Ortofrutticolo di Fondi (uno dei maggiori mercati ortofrutticoli d’Europa).
La comunità nasce da un nucleo originario di poche decine di persone, prevalentemente giovani uomini provenienti in parte dal Punjab e in parte da altre comunità diffuse in Europa, soprattutto Germania, Inghilterra e Francia. Ad oggi conta circa 30 mila presenze, residenti soprattutto nelle aree transurbane6, ossia in aree periurbane o rurali in cui vengono replicati stili di vita, modelli sociali e comportamentali propri della cultura punjabi, responsabili della continua evoluzione dello spazio abitato o socialmente vissuto anche in conseguenze delle relazioni transnazionali che i punjabi residenti sviluppano con il Punjab7. Tali aree sono in particolare il residence Bella Farnia Mare (Comune di Sabaudia), San Vito (frazione di San Felice Circeo) e borgo Hermada (Comune di Terracina) insieme allo spazio periurbano della città di Fondi. Prevalentemente impiegati in una specifica nicchia occupazionale8, ossia nel bracciantato agricolo, molti lavoratori e sempre più lavoratrici punjabi sono obbligati a vivere condizioni di grave sfruttamento lavorativo, anche a causa di un sistema di tratta internazionale e caporalato. Queste condizioni consentono di definirla comunità di sole braccia, a significare il loro impiego lavorativo strumentale ai soli fini della produzione agricola e relativi profitti, e non soggetti attivi, titolari di diritti, protagonisti di una complessità culturale, sociale e religiosa da comprendere e includere nella società di accoglienza.
La tratta internazionale grigio-nera punjabi-pontina: premessa dello sfruttamento lavorativo
I primi punjabi arrivati in provincia di Latina (coloni) hanno assunto, nel corso degli anni, un ruolo di rilievo nella loro comunità, svolgendo funzioni di rappresentanza e mediazione tra i membri della stessa, con la società di accoglienza e il Punjab. Un ruolo che ha garantito loro di maturare conoscenze avanzate sul funzionamento del sistema amministrativo italiano (pontino in particolare), sulle necessità di molti imprenditori agricoli locali e su alcune prassi informali vigenti, a partire da quelle corruttive. Conoscenze che si sono trasformate nel tempo in prassi e infine in sistemi d’affari informali fondati sulla tratta internazionale di esseri umani a scopo di sfruttamento lavorativo e sul caporalato. Si tratta della formazione di un modello di tratta internazionale punjabi in alleanza con alcuni imprenditori agricoli pontini compiacenti, liberi professionisti dediti all’agevolazione di pratiche utili all’attività criminale, impiegati pubblici e a volte organizzazioni mafiose, dando vita ad una strategica e criminale consorteria punjabi-pontina9 volta al reclutamento internazionale e all’intermediazione illecita di manodopera punjabi da impiegare nei campi agricoli della provincia di Latina.
Le figure apicali della consorteria criminale sono almeno tre: il trafficante indiano, definito sponsor o mediatore, l’imprenditore agricolo compiacente e il gruppo di punjabi interessati a migrare in provincia di Latina. A questa triade si sommano altre figure a seconda delle sue necessità organizzative, come liberi professionisti, impiegati e funzionari pubblici; tra questi, in particolare, consulenti del lavoro, impiegati pubblici e agenti delle forze dell’ordine, commercialisti e avvocati, ragionieri, notai e ispettori del lavoro. Si tratta di un insieme di attori senza i cui servizi le organizzazioni criminali punjabi e gli imprenditori pontini collusi non riuscirebbero a realizzare i progetti criminali con la professionalità necessaria alla loro buona riuscita. La figura dello sponsor/trafficante punjabi è di grande interesse. Egli è generalmente della stessa nazionalità dei migranti reclutati ma con una lunga esperienza migratoria in Italia e in particolare nell’area pontina e delle modalità formali di ingresso nel paese, delle prassi per l’inserimento lavorativo dei migranti trafficati nelle aziende agricole pontine e della realtà amministrativa e istituzionale locale. Egli dispone anche di una fitta rete sociale che comprende indiani e italiani residenti nel pontino e in Punjab e di un’ottima conoscenza dell’italiano. Il suo interesse economico deriva dalla sua funzionale relazione con alcuni imprenditori agricoli pontini che necessitano, per ragioni legate al tipo di produzione o ad eventi straordinari, di manodopera punjabi10 da impiegare. L’imprenditore agricolo pontino si rivolge allo sponsor/trafficante punjabi per soddisfare il suo fabbisogno occupazionale. Per lo sponsor/trafficante indiano, attivarsi per reperire i lavoratori punjabi da occupare nelle aziende agricole pontine significa attivare i componenti delle sue strutture reticolari nel Punjab e spingerli a intensificare le loro relazioni coi connazionali individuati e le loro famiglie. Tale ricerca è rafforzata dalla promessa di fruire di una futura collocazione lavorativa, sebbene come bracciante, e dei servizi correlati, a partire dalla residenza/alloggio e relativa documentazione. I proventi di questa operazione variano dai 5.000 ai 12.000 euro a persona, in relazione al grado di amicizia o parentela dei soggetti individuati con lo sponsor o i suoi referenti locali, alla disponibilità economica della famiglia, ai costi per il reperimento dei documenti e del biglietto aereo. Considerando che ogni arrivo dal Punjab comprende un numero di lavoratori variabile dalle 5 alle 20 unità, ne deriva che lo sponsor/trafficante sviluppa un volume d’affari illegale che varia dai 25.000 ai 240.000 euro. L’imprenditore pontino riconosce la convenienza economica che l’azione illegale dello sponsor/trafficante determina, garantendogli, per ogni lavoratore reclutato, una cifra che varia dai 1.000 ai 3.000 euro. La sua convenienza deriva invece dall’impiego dei migranti punjabi presso la propria azienda, spesso senza regolare contratto di lavoro, a fronte di retribuzioni particolarmente basse11; minore è la retribuzione del braccianti punjabi, prima l’imprenditore rientrerà della somma versata allo sponsor per i suoi servizi.
La consorteria criminale ha inoltre come caratteristica quella di essere a cromatura grigio-nera12, sostenuta da strutture organizzate e persistenti nel tempo, debitamente rodate e attente ad evitare conflitti e attenzione mediatica (processo di mimetizzazione). Essa si posiziona innanzitutto in un’area grigia, sfuggente al sistema dei controlli formali grazie alla sua capacità di mimetizzarsi e di mediare il conflitto, e poi in un’area nera, caratterizzata da illegalità, violenza e finalizzata alla subordinazione del migrante punjabi e all’estorsione del suo consenso.
La connotazione nera del sistema di tratta dei punjabi deriva invece dall’arricchimento illecito del trafficante e del datore di lavoro derivante dallo sfruttamento lavorativo dei braccianti indiani. L’inganno e la truffa rappresentano il core business dell’organizzazione mafiosa punjabi-pontina e la subordinazione dei migranti, anche se relativamente non conflittuale, il suo presupposto conveniente13.
Le azioni di contrasto della tratta internazionale e sfruttamento lavorativo nel pontino da parte delle forze dell’ordine e della magistratura14 confermano l’esistenza di un sistema organizzato e rodato nelle forme sopra descritte. Nel marzo del 2013, per esempio, si concluse una complessa attività d’indagine della squadra mobile di Latina che riuscì a disarticolare un’organizzazione criminale dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, falsificazione e contraffazione di documenti15. Nell’aprile e nel luglio del 2014 è stata invece individuata un’organizzazione criminale composta da italiani e stranieri, tra cui punjabi, dedita allo sfruttamento di manodopera indiana attraverso l’erogazione di falsi contratti di lavoro finalizzati ad ottenere illegalmente permessi di soggiorno. Nel corso dell’attività investigativa emerse che gli indiani occupati con un contratto di lavoro falsificato dovevano restituire la metà del salario ricevuto ai rispettivi datori di lavoro (circa 500–600 euro su un compenso di 1.000–1.200 euro al mese). Sempre nel 2014, tale pratica è stata contestata anche ai caporali/sponsor indiani. A questo riguardo, la magistratura pontina ha avviato, nel 2015, un importante processo da cui può risultare, se le accuse verranno confermate, la pervasività del sistema criminale delle organizzazioni punjabi-pontine. L’attività criminale era finalizzata a falsificare tutti i documenti utili per il rilascio del permesso di soggiorno in cambio di circa mille euro da ogni lavoratore indiano. I lavoratori punjabi testimonieranno di essere stati truffati dal padrone italiano e da alcuni loro connazionali. L’udienza preliminare si è conclusa con il rinvio a giudizio degli imputati e l’accettazione di parte civile della coop. In Migrazione e della Flai-Cgil. È la prima volta in Italia che in un processo di questo genere viene accolta come parte civile una cooperativa e un’organizzazione sindacale.
Le condizioni di lavoro dei braccianti punjabi in provincia di Latina: caporalato e sfruttamento lavorativo
I lavoratori e lle avoratrici punjabi nel pontino sono costretti spesso a lavorare dalle 10 alle 14 ore al giorno (sabato e domenica compresi), per circa 3 euro l’ora, quando il contratto nazionale provinciale prevede 6 ore e 30 di lavoro giornaliero per circa 9 euro lorde l’ora di retribuzione. Sottoposti al ricatto costante di licenziamento da parte del datore di lavoro, sono spesso obbligati, come forma estrema di subordinazione, a chiamarlo padrone e ad abbassare la testa quando si rivolgono a lui. Si aggiungono poi truffe di varia natura: dalle pratiche illegali per rinnovare il permesso di soggiorno, alle buste paga e contratti falsi, dai salari yo-yo, ossia pagati per via telematica e poi in parte restituiti dal lavoratore al datore di lavoro in contanti, alle truffe per rinnovare i documenti (alcuni indiani hanno pagato 800 euro per rinnovare la carta di identità), dai salari pagati con ritardi anche di un anno o mai riconosciuti, alle violenze fisiche e continue intimidazioni, sino ai ricatti sessuali alle lavoratrici indiane e rumene. Il sottosalario, i ricatti, le vessazioni, in alcuni casi la riduzione in schiavitù16, praticate con sistematica perseveranza da caporali e padroni concorrono a formare un sistema di produzione (e di distribuzione) fondato sull’organizzazione dello sfruttamento e su pratiche di assoggettamento. Ciò permette ad alcune aziende un consistente contenimento dei suoi costi di produzione17 e la ristrutturazione del suo sistema produttivo mediante una sorta di “delocalizzazione sul posto”18. Interessante è il caso di un’azienda agricola del pontino che ha assunto tutti i lavoratori punjabi in modo regolare salvo impiegarli con l’illegale pratica del cottimo retribuendoli 3 euro ogni 100 mazzetti da 15 di ravanelli raccolti (scarti esclusi). Dopo una piccola rivendicazione dei lavoratori legata alla retribuzione, ai tempi di pagamento, spesso dilatati, e ai famosi 80 euro del governo italiano riconosciuti ad ogni lavoratore ma illegalmente trattenuti dall’azienda, accusati di essersi insubordinati, è stata imposta loro una nuova retribuzione oraria di 2,90 euro per la stessa quantità di prodotto raccolto, una nuova organizzazione delle relazioni tra datore di lavoro e lavoratori tale per cui ogni rivendicazione deve essere presentata per iscritto, firmata e inserita in una cassetta apposita dalla quale ogni giorno essa viene prelevata e cestinata; è stato inoltre introdotto il caporalato, tutti i bracciati punjabi più anziani licenziati e sostituiti da altri appena giunti dal Punjab e dunque meno propensi a rivendicare diritti e retribuzioni. Lo stesso vale per un’altra importante azienda agricola pontina esportatrice di prodotti ortofrutticoli in tutta Europa che, a fronte di diverse decine di ettari di terreno coltivato, impiega solo poche decine di lavoratori. Una contraddizione esplicita che nasconde un sommerso di vessazioni, evasione contributiva e ricatto occupazionale. Lo stesso caporalato ha assunto caratteri tipici che lo fanno rientrare solo in parte nella più generale fattispecie normativa prevista dall’ordinamento italiano. È poco diffusa infatti la pratica del reclutamento diretto in piazze o strade dei lavoratori, come invece accade in altre regioni italiane. La chiamata del caporale avviene invece spesso mediante messaggi al cellulare dei braccianti selezionati o attraverso convocazione tramite il sistema Whatsapp. Ciò consente di mimetizzare il caporalato e di evitare controlli delle forze dell’ordine. Il lavoratore viene selezionato secondo le convenienze del datore di lavoro (padrone) tra le quali rientrano la sua accondiscendenza nei confronti dello sfruttamento imposto.
A questi casi si sommano gli infortuni sul lavoro, a volte anche drammatici e quasi mai denunciati. Essi avvengono durante l’orario di lavoro e spesso sono occultati onde evitare all’azienda responsabile controlli e denunce. Spesso i braccianti punjabi vengono accompagnati dal datore di lavoro nei pressi di un ospedale o pronto soccorso con la raccomandazione-ricatto di non raccontare la dinamica dell’incidente.
Particolarmente diffuse sono le rapine che i braccianti punjabi subiscono il giorno di paga. A volte la retribuzione viene loro corrisposta in contanti; tornando nei luoghi di residenza spesso in bicicletta o motorino, vengono attesi lungo le strade da gruppi di giovani italiani che li aggrediscono per rubare loro il salario duramente guadagnato. Una pratica diffusa che ha contribuito a generare un clima di sfiducia nei lavoratori, sicuri dell’impunità dei loro aguzzini. Ciò è confermato dalle difficoltà dei lavoratori stessi di rappresentare alle forze dell’ordine quanto accaduto e dalla difficoltà di molti agenti nel comprendere la complessità delle condizioni del lavoratore, le sue ansie e paure. Sono stati inoltre registrati episodi inquietanti come alcuni braccianti punjabi a cui dei criminali italiani hanno tentato di dare fuoco o a cui hanno rotto le gambe con lo scopo di punirli o intimidirli.
Ancora più drammatico è il caso dei suicidi dei lavoratori punjabi pontini. Uomini che dopo anni di sfruttamento ritengono il suicidio l’unico modo per fuggire da quell’inferno. È accaduto, per esempio, nei pressi del Comune di Sabaudia ad un lavoratore punjabi impiccatosi dentro la serra agricola nella quale lavorava. Il suo datore di lavoro gli riconosceva una retribuzione di appena 250 euro al mese per 26 giorni di lavoro effettivamente lavorati. Una condizione che ha condotto ad uno stato di frustrazione e depressione grave che probabilmente lo ha indotto a compiere un gesto estremo e drammatico. Anche i ricatti sessuali risultano praticati in alcune aziende agricole; pratiche di ulteriore assoggettamento, fondate sulla prevaricazione e la violenza di genere, che colpiscono le lavoratrici indiane e rumene. Una pratica riscontrata anche in altri territori italiani, in particolare nelle campagne del ragusano in Sicilia.
Secondo uno studio di Medu (Medici per i Diritti Umani), condotto con ASGI e LEGAL CLINIC dell’Università RomaTre, le modalità di pagamento più diffuse in provincia di Latina tra i braccianti punjabi è quella a ore; essa riguarda oltre l’80 % delle persone intervistate. Il 67 % di braccianti dichiara di essere pagato direttamente dal datore di lavoro, il 7 % da un intermediario indiano, mentre il 24 % ha preferito non rispondere. Le buste paga e i contratti di lavoro appaiono spesso regolari salvo contenere dati sempre sbagliati a vantaggio del padrone: impiegati per dodici o quattordici ore al giorno tutti i gironi del mese si vedono riconoscere solo tre o quattro giorni di lavoro mensili mentre il resto delle ore restano sommerse o segnate a matita su fogli di carta (i pizzini dello sfruttamento). Un lavoratore punjabi pontino dichiara:
Il mio padrone mi deve dare ancora 26 mila euro. Sono 7 anni che lavoro in una cooperativa vicino a Sabaudia e da 7 anni prendo 200/300 euro al mese. Non so perché. Io lavoro tutta la settimana, sette giorni su sette, la domenica mezza giornata, per soli 300 euro al mese. Il resto dei soldi il tiene il padrone.19
La pratica delle buste paga false è assai diffusa, rappresentando lo stratagemma per evitare i controlli e rientrare in un sistema in cui si confondono legalità e illegalità; la prima usata strumentalmente per evitare controlli e determinare condizioni di illegalità e sfruttamento nei confronti dei lavoratori e lavoratrici punjabi. La coop. In Migrazione ha presentato un dettagliato dossier dal titolo “Sfruttati a tempo indeterminato” che ha descritto le modalità attraverso le quali lo sfruttamento, la riduzione in schiavitù, il caporalato assumono parvenze legali, coperti da un sistema amministrativo farraginoso e iper-burocratico. Altrettanto drammatico è il caso dei lavoratori punjabi pontini indotti a doparsi per lavorare come schiavi dal datore di lavoro/padrone/caporale, dai ritmi di lavoro imposti, dai connazionali pronti a prendere il loro posto di lavoro (processo di sostituzione), dagli obblighi derivanti dagli impegni assunti con la famiglia in Punjab. Essi assumono metanfetamine, oppio e antispastici con lo scopo di reggere le quotidiane fatiche fisiche, psicologiche e le pressioni sociali che quotidianamente subiscono20. Afferma K. Singh, lavoratore punjabi residente in provincia di Latina:
Noi siamo sfruttati e non possiamo dire al padrone ora basta, perché lui ci manda via. Allora alcuni indiani pagano per una piccola sostanza per non sentire dolore alle braccia, gambe e schiena. Il padrone ci dice: lavora, lavora, lavora, forza, forza, e dopo 14 ore di lavoro nei campi come è possibile lavorare ancora? In campagna per raccogliere i ravanelli gli indiani lavorano piegati tutto il giorno in ginocchio; la sostanza ci aiuta per vivere e lavorare meglio …21.
Il contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e le agromafie
Il contrasto allo sfruttamento dei braccianti italiani e stranieri sinora è deludente. Nel 2012 sono state 435 le persone arrestate per riduzione in schiavitù (art. 600 c.p.), tratta e commercio di schiavi (art. 601), alienazione e acquisto di schiavi (art. 602). Dall’entrata in vigore della norma che istituisce il reato di caporalato (art. 603bis del c.p., introdotto dal D.L. 13 agosto 2011, n.138) le persone denunciate o arrestate sono solo 42, di cui circa le metà nel Nord del Paese. Le agromafie sono un settore strategico per molti clan e occasione per riciclare e fatturare milioni di euro. Sono 3.600 organizzazioni mafiose che operano in Europa; la commissione antimafia, istituita presso il Parlamento Europeo, valuta che il processo d’infiltrazione delle mafie nell’economia legale determina all’economia europea un danno di oltre 670 miliardi di euro di mancati ricavi. Transcrime, autorevole centro di ricerca sulla criminalità transnazionale, ha stimato che solo in Italia i ricavi delle organizzazioni mafiose sono almeno di 33 miliardi di euro, pari a 1,7 % dell’intero prodotto interno lordo. La criminalità organizzata controlla e condiziona quasi l’intera filiera agroalimentare: dalla produzione agricola all’arrivo della merce nei porti, dai mercati all’ingrosso alla Grande Distribuzione Organizzata, dal confezionamento alla commercializzazione, dai grandi mercati ortofrutticoli (ad esempio quello di Fondi, città del Sud pontino) alla logistica, con un giro d’affari, secondo la direzione nazionale antimafia, di 12,5 miliardi di euro l’anno. Sono invece 27 i clan malavitosi che hanno come settore principale le agromafie, la tratta di esseri umani finalizzata allo sfruttamento lavorativo e il caporalato, riciclaggio di capitali illeciti attraverso il lavoro nero, investimenti industriali legati al ciclo della trasformazione, racket e usura a danno degli imprenditori, gestione della logistica e trasporto dei prodotti ortofrutticoli e alimentari di derivazione industriale, gestione diretta dei mercati generali con l’obiettivo di condizionare la borsa dei prezzi e infiltrazione nella filiera della distribuzione e dell’export. Il mancato intervento in questo settore significa condannare parte della filiera agricola italiana e europea ad una gestione criminale e lasciare milioni di uomini e donne sotto ricatto, sfruttamento e intimidazione mafiosa.
Conclusioni
La relazione tra bracciantato, riduzione in schiavitù e sfruttamento, truffe, violenze, mafie e un certo modello di produzione agricolo è ormai sistemica; una parte sempre più rilevante della produzione capitalistica agricola italiana e mondiale, è fondata sull’impiego di schiavi, stranieri in primis, costretti a lavorare e vivere in condizioni disumane. In provincia di Latina la comunità punjabi è spesso vittima di un sistema organizzato fondato sullo sfruttamento lavorativo, sulla tratta internazionale e su un insieme di complicità funzionali che ne consentono la mimetizzazione. L’assenza dei controlli, la scarsa volontà politica insieme all’ostracismo di alcuni datori di lavoro, le difficoltà proprie dei braccianti indiani, poco propensi alla denuncia salvo alcune eccezioni, gli interessi di numerosi clan mafiosi, le regole proprie della Grande Distribuzione Organizzata e infine un approccio riscontrato ancora sostanzialmente formale da parte delle forze dell’ordine, impediscono il superamento di tale sistema. Insieme ad alcune importanti proposte normative di riforma, a partire dall’aggiornamento della legge italiana contro il caporalato e la sua introduzione nel 416bis (associazione mafiosa) e il blocco dei finanziamenti pubblici alle aziende colpevoli di sfruttamento, è indispensabile ripensare il mondo del lavoro ponendo al centro i diritti dei lavoratori da coniugare con le legittime aspettative delle imprese mediate da un sistema normativo e istituzionale adeguato per preparazione, capacità predittiva e repressiva. Senza questa inversione di tendenza si rischia di replicare ogni giorno le condizioni nel saggio analizzate e registrare i drammi che quotidianamente nei territori più esposti colpiscono migliaia di lavoratori e lavoratrici.
Sono invece 880 mila i lavoratori forzati negli Stati dell’Unione Europea.↩
Il 20 giugno 2014 la coop. In Migrazione e la Flai-Cgil sono state convocate in audizione presso il V Comitato Testi della Commissione parlamentare bicamerale antimafia del Parlamento italiano. Ciò fu possibile grazie all’On. Davide Mattiello maturato dopo la sua ispezione condotta in alcune aziende agricoli della provincia di Latina, coordinata dalla coop. In Migrazione e compiuta con l’On. Khalid Chaouki e l’On. Giuseppe Civati. Si istituì un Comitato sulla tratta e il caporalato interno alla Commissione e furono depositate alcune proposte di riforma, come il ritorno al collocamento pubblico, l’introduzione degli indici di congruità, il blocco dei finanziamenti pubblici alle aziende che praticano lo sfruttamento, l’aggiornamento della legge sul caporalato e, infine, l’introduzione del reato di caporalato nel 416bis (associazione mafiosa).↩
In particolare, la coop. In Migrazione, Medici Senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani e Amnesty International. Quest’ultima ha denunciato la diffusione dello sfruttamento lavorativo dei migranti braccianti nelle campagne italiane. Esso si manifesterebbe riconoscendo ai lavoratori migranti paghe inferiori al salario minimo contrattuale attraverso azioni intimidatorie, pagamenti ritardati o mancati e lunghi orari di lavoro.↩
Marco Omizzolo, “Il movimento bracciantile in Italia e il caso dei braccianti indiani in provincia di Latina dopati per lavorare come schiavi,” in Migranti e territori, ed. Marco Omizzolo e Pina Sodano (Roma: Ediesse, 2015), 201–66.↩
Enzo Nocifora, “L’avvento del lavoro paraschiavistico e le trasformazioni del mercato del lavoro in Italia”, in Quasi schiavi, paraschiavismo e super-sfruttamento nel mercato del lavoro del XXI secolo, ed. Enzo Nocifora (Santarcangelo di Romagna: Maggioli Editore, 2015), 39-82.↩
Marco Omizzolo, “La formazione dello spazio sociale transurbano e il caso della comunità sikh della provincia di Latina,” in La globalizzazione delle campagne, ed. Carlo Colloca e Alessandra Corrado (Milano: Franco Angeli, 2013).↩
È la natura sostanzialmente transnazionale della comunità punjabi pontina a definire il carattere transnazionale allo spazio urbano e rurale nel quale essa vive.↩
Non sono condivisibili le tesi fondate su una presunta predisposizione culturale o religiosa dei punjabi, peraltro di religione prevalentemente sikh, in tali attività lavorative. Il bracciantato agricolo è una nicchia occupazionale sostanzialmente non occupata (o poco occupata) da manodopera autoctona, costituitasi in conseguenza della divisione del lavoro e segmentazione del relativo mercato, che garantisce attività poco remunerate, pericolose e poco prestigiose soprattutto a lavoratori migranti.↩
Olga Capasso, “La criminalità di origine estremo-orientale” (studio presentato nell’ambito della relazione annuale sulle attività svolte dal procuratore nazionale antimafia e dalla Direzione nazionale antimafia, nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo 1 luglio 2011–30 giugno 2012, Roma, 2012) 212–3.↩
La richiesta di manodopera migrante da parte di alcuni imprenditori agricoli pontini deriva dalla loro fragilità sociale che li espone facilmente allo sfruttamento.↩
Marco Omizzolo, “Le migrazioni tra terra, capitale e lavoro nell’epoca della globalizzazione. Migranti, caporalato e sfruttamento in provincia di Latina, Caserta, Nardò e Rosarno,” Rivista di Studi sui Servizi Sociali, n. 4 (2013): 53–89.↩
Francesco Carchedi e Marco Omizzolo, Il sistema criminale di reclutamento e di sfruttamento degli indiani punjabi in provincia di Latina (Milano: Franco Angeli, 2015).↩
Un bracciante indiano dichiara: “Il mio ex padrone è un ladro. Volevo la carta d’identità perché senza incontro sempre molti problemi coi Carabinieri. Lui mi ha chiesto 800 euro per fare la mia carta d’identità. Il mio stipendio mensile è di 650 euro. Ho dato i soldi ma poi non ho ricevuto la carta d’identità. Sono così rimasto senza soldi per un mese. Non è possibile questo, non è giusto. Io ho lavorato tanto, pago l’affitto di casa, mando soldi alla mia famiglia in Punjab. (…) Sono un lavoratore bravo e non ho mai creato un problema. La carta d’identità è importante per me”, Coop. In Migrazione, “Doparsi per lavorare come schiavi” (Roma, 2014).↩
Alcune indagini della Magistratura hanno interessato lo sfruttamento dei braccianti indiani, la tratta di esseri umani e le collusioni coi clan delle organizzazioni criminali e imprese agricole pontine. Si citano le inchieste Bilico e Sud Pontino della Direzione distrettuale antimafia di Napoli che hanno svelato un patto d’affari tra Camorra, ’Ndrangheta e Cosa Nostra. Con la prima inchiesta (22 febbraio 2014) è emerso che al Mercato Ortofrutticolo di Fondi (LT) venivano sottoscritte false assunzioni con falsi documenti di cittadini indiani e bangladesi. Alcuni imprenditori, inoltre, richiedevano numerosi nullaosta per lavoro dietro compenso, tentando di sistemare le pratiche senza formalizzare le assunzioni dei migranti. Con l’inchiesta Sud Pontino, invece, è emersa la capacità della Camorra di imporre i prezzi dei prodotti agricoli e indirettamente i bassissimi salari dei braccianti.↩
Sono state eseguite undici misure cautelari. Al vertice vi era un noto avvocato di Latina che in cambio di compensi consentiva l’ingresso illegale in Italia a centinaia di immigrati, in prevalenza indiani, munendoli di falsa documentazione per assunzioni fittizie e finti ricongiungimenti familiari. Il compenso variava dai 6.000 ai 7.000 euro nel primo caso e a mille euro nel secondo. La prima tranche veniva versata in India da un intermediario e la seconda all’ottenimento del nullaosta spedito o consegnato a mano da un corriere; alcuni intermediari indiani erano addetti al reclutamento di stranieri nel paese d’origine.↩
Nelle campagne pontine si è avuta prova dell’esistenza della riduzione in schiavitù classica, quale la reclusione di un lavoratore in un ricovero per gli attrezzi in piena campagna e suo rilascio solo per il tempo utile alla produzione agricola. Tale situazione è stata prima assunta dai racconti di alcuni lavoratori punjabi e poi rilevata durante il periodo di osservazione partecipata (giugno-agosto 2010).↩
Carlo Colloca e Alessandra Corrado, La globalizzazione delle campagne (Milano: Franco Angeli, 2013).↩
Emmanuel Terray, “Le travail des étrangers en situation irrégulière ou la délocalisation sur place,” in Sans-papiers: l’archaisme fatal, ed. Etienne Balibar, Monique Chemillier-Gendreau e Jaqueline Costa-Lascoux, Emmanuel Terray (Paris: La Découverte, 1999), 9–34.↩
Intervista della coop. In Migrazione “Doparsi per lavorare come schiavi,” (Roma, 2014).↩
Questo fenomeno è stato denunciato dalla coop. In Migrazione con il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi” (Ibid.).↩
Intervista della coop. In Migrazione pubblicata nel dossier “Doparsi per lavorare come schiavi” (Roma, 2014).↩
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