Le testimonianze dei reduci italiani del lager di Flossenbürg
Chiara Nannicini Streitberger
Nell’ambito di una ricerca sulle testimonianze scritte degli ex deportati italiani nel campo di concentramento di Flossenbürg, s’impongono varie questioni di carattere più generale sull’aspetto testuale della testimonianza. Tali questioni sorgono già dalla semplice lettura ma ancor più dall’analisi della scrittura e delle scelte compiute rispettivamente dai diversi testimoni-narratori.
Scopo della ricerca è di prendere in considerazione questo corpus di testi, accomunati dalle motivazioni e dalle tematiche storico-biografiche, e studiarli per la loro natura di testi narrativi. Non si tratta di compiere il lavoro dello storico, già ampiamente disponibile ed esauriente per l’universo concentrazionario in generale e, più specificatamente, per il lager di Flossenbürg. Non s’intende quindi verificare la veridicità delle testimonianze, confrontando per esempio le date e gli eventi raccontati da più testimoni per ottenere una ricostruzione storica attendibile che corrisponda alla realtà. D’altra parte, il fatto di non eseguire alcuna verifica di attendibilità non significa neppure trascurare il contenuto di questi testi, dacché proprio il contenuto giustifica gli aspetti testuali e le scelte narrative. È d’altronde impensabile prescindere dal contenuto di un testo in modo generale e assai più particolarmente nel caso specifico, avendo a che fare con testimonianze di deportazione e di prigionia, per le quali un’analisi puramente narratologica sarebbe un sabotaggio.
Mi sono posta all’inizio una serie d’interrogativi semplici, sulla cui base ho esplorato le testimonianze scoprendole da un altro punto di vista. Come l’autore o l’autrice abbia descritto i momenti cruciali della storia – basata sull’esperienza autobiografica, certo –, quali siano gli elementi prescelti per accompagnare il racconto, a chi si rivolga il narratore e in che modo, come scriva una tale testimonianza molti anni dopo i fatti narrati e quanto incida la distanza temporale sul testo: queste sono alcune delle domande iniziali, da cui scaturisce in parte la presente riflessione.
Le quindici testimonianze in italiano
Per cominciare, occorre precisare che il corpus è costituito da quindici testimonianze1 scritte e pubblicate come libri indipendenti dal 1946 (data di pubblicazione del primo, Il triangolo rosso del deportato politico N° 6017, di Pino Da Prati) fino al 2006 (la data dell’ultimo testo d’Armando Attilio, Dalla Val Sangone a Flossenbürg: un piemontese tra guerra e lager). Ci sono sessant’anni d’intervallo tra la pubblicazione del primo e quella dell’ultimo, il che costituisce la prima grande differenza. La distanza temporale dagli eventi narrati è un fattore che incide sulla maggioranza dei testi. Basti pensare che, tranne la testimonianza citata di Da Prati e altre due pubblicate nel 19602, quasi tutte le altre sono pubblicate dal 1975 in poi, ovvero una trentina d’anni dopo l’esperienza autobiografica. La lunga attesa prima di scrivere si spiega con diverse ragioni: prima fra tutte la difficoltà dei testimoni a farsi ascoltare o pubblicare, nel periodo dell’immediato Dopoguerra, come ricordano anche gli esempi più celebri di Primo Levi e Imre Kerstész3. Un’altra ragione ovvia dipende dall’età dei testimoni i quali, giunti alla vecchiaia, sentono il bisogno di lasciare una traccia scritta dei loro ricordi e traumi. Quest’esigenza urgente di testimoniare prima che sia troppo tardi prende il sopravvento su esitazioni ben comprensibili e sentimenti che questi ricordi evocano, e che possono a loro volta costituire il motivo per non averlo fatto finora.
Appare tuttavia chiaramente che l’atteggiamento del narratore cambia a seconda dell’epoca in cui scrive e delle conoscenze che il pubblico può avere. Quando Ponzuoli racconta, per esempio, dell’incredulità di un ufficiale medico incontrato al suo ritorno in Italia (quando fu ricoverato con un peso di 29 kg e un rene rotto), la distanza temporale gli permette di scrivere:
Ora, dopo anni, vorrei poterlo incontrare, lui così convinto che stessi raccontando tante fandonie; ora che posso dimostrare che tutto quanto gli narrai allora era vero e che quei campi di sterminio erano veramente esistiti, come si comporterebbe?4
Oltre al corpus principale costituito da questi quindici libri, ci sono alcune testimonianze più brevi, edite in volumi collettivi – come quella di Goti Bauer –, altre testimonianze inedite e dattilografate, conservate in archivi e biblioteche di associazioni italiane o al Memoriale di Flossenbürg – come quella di Carlo Toniolo – e, infine, alcune testimonianze orali registrate su diversi supporti. Il presente studio si basa soprattutto sui testi pubblicati come libri, per la loro ampiezza, la loro coerenza e la loro costruzione narrativa completa, indispensabili criteri per l’analisi prevista.
I quindici testimoni sono tuttavia molto diversi gli uni dagli altri, da tutti i punti di vista. Prima di tutto, sono tredici uomini e due donne, il che si spiega certamente con le cifre dei prigionieri di Flossenbürg e dei suoi sotto-campi. Allo stesso modo, adducendo ragioni storiche, si comprende il gran numero di prigionieri politici tra i nostri testimoni principali: quattordici triangoli rossi su quindici, e una sola Ebrea, Frida Misul, d’altronde trasferita a Wilischtal dopo Auschwitz5. Queste differenze si fanno notare fin dal principio, ma ce ne sono ancora altre notevoli:
La data di pubblicazione, un problema sopracitato, che può influenzare direttamente non solo la questione della ricezione, ma anche gli aspetti stilistici. Per fornire un esempio, la prima testimonianza di Da Prati è impregnata di uno stile retorico assai di moda negli anni 30 e 40 ma superato oggigiorno. Un altro esempio flagrante si trova in una delle ultime testimonianze, che fa allusione esplicita a un film molto popolare uscito al cinema nel 19976.
Indelebile e onnipresente appare il livello culturale dell’autore e il suo grado di formazione. Abbiamo infatti da un lato Mariconti, giovane operaio della Pianura Padana, Scollo e Bergamasco, adolescenti al momento della deportazione (17 anni il primo e 14 la seconda), che scrivono in modo semplice e a tratti ingenuo e, dall’altro lato, Rusich De Moscati e Bocchetta, rispettivamente professori di italiano e di filosofia nei licei oppure Gaetano Cantaluppi, che era stato generale dell’esercito italiano, o ancora Giannantonio Agosti, frate francescano, che era confessore in lingue straniere al Duomo di Milano.
L’origine geografica costituisce un altro fattore importante di differenziazione. Poiché i trasporti per Flossenbürg partivano soprattutto dal campo di Bolzano, o da Trieste, la maggioranza degli autori proviene dall’Italia settentrionale e centro settentrionale: dalla Toscana, dalla Liguria, dalla Lombardia, dal Piemonte, dal Trentino e dal Veneto, ma anche dal Friuli e dall’Istria. Tale origine specifica si spiega naturalmente con la situazione storico-politica dell’Italia del 44: com’è noto, a quest’epoca la Linea Gotica tagliava la penisola in due.
Un altro criterio che incide profondamente sulle testimonianze scritte è l’impegno politico o qualsiasi altra forma di fede o di credenza politica e religiosa. Il fatto che siano in gran maggioranza prigionieri politici, infatti, non implica necessariamente che la partecipazione attiva alla lotta antifascista e il senso critico nei confronti dell’universo concentrazionario siano uguali per tutti. Per esempio, Armando è capo di una brigata partigiana e subisce numerose torture durante gli interrogatori in carcere: per lui, il campo di concentramento s’inserisce in un crescendo di umiliazioni e violenze. Bocchetta possiede un autocontrollo, una visione consapevole e cinica, cui contribuisce sicuramente la sua appartenenza alla gerarchia della resistenza armata. Il padre francescano Agosti non tralascia mai di commentare l’esperienza della prigionia da un punto di vista profondamente cristiano, che funge da sostegno e da criterio di giudizio. Cantaluppi, infine, fa prova di un buon equilibrio tra la rettitudine militare e l’umanità cristiana.
A complicare ulteriormente le cose, il fatto che alcuni reduci siano passati da diversi campi di prigionia, prima o dopo Flossenbürg. È quindi assai difficile tenere un discorso unitario senza precisare continuamente i luoghi e i momenti della loro prigionia. Quasi tutti descrivono il campo principale di Flossenbürg, certo, il che costituisce il fattore comune. Ma alcuni di loro ci sono rimasti pochissimo tempo (per esempio Geloni, trasferito quasi subito al sotto-campo di Hersbruck), altri descrivono con più dettagli il primo campo di concentramento in cui sono stati deportati (Auschwitz per Misul e Bergamasco e Dachau per Ponzuoli), e altri ancora hanno cambiato così spesso che non si soffermano più su un campo piuttosto che un altro: esemplare il caso di Armando, passato da Flossenbürg a Mauthausen, poi a Buchenwald, a Bergen Belsen, ritornato a Flossenbürg per poi finire la deportazione a Zwickau.
Anche gli errori e le incoerenze, lungi dal costituire un problema, possono invece documentare altri elementi essenziali. Per esempio, l’ortografia delle parole tedesche può indicare conoscenze linguistiche dell’autore precedenti alla prigionia oppure attestare l’apprendimento puramente orale della lingua – o meglio del gergo del campo. In modo analogo, errori cronologici o semantici confermano le condizioni psicofisiche dei deportati, di cui occorre tener conto anche trenta o quarant’anni dopo i traumi, al momento della redazione. Vorrei ricordare a questo proposito Pascal Cziborra nel suo recente saggio, quando nota che Elvia Bergamasco ha commesso un errore nella datazione del suo Transport per Chemnitz7. Si tratta del brano in cui la testimone descrive il Natale trascorso a Birkenau, mentre il Nummernbuch di Flossenbürg la contraddice, dimostrando che la ragazza era a Chemnitz fin dal mese di ottobre – come Cziborra fa notare nella sua argomentazione. Se quest’errore di datazione non cambia nulla, in sostanza, alla malinconica descrizione di un Natale in un campo, mi sembra invece interessante se preso come sintomo evidente dello stato di spossamento fisico e cerebrale della prigioniera, che non riesce più a distinguere i luoghi o a imprimerli nella memoria in modo distinto, per ricordarsene più tardi.
Diversi aspetti specifici dei testi si sono imposti all’attenzione come soggetti di riflessione, elementi di paragone. Essi costituiscono gli spunti metodologici di un’analisi in corso. Benché non sia qui possibile approfondirli, possiamo tuttavia presentarli uno dopo l’altro in modo sintetico.
I limiti della testimonianza
L’inizio e la fine della testimonianza non sono semplici delimitazioni della storia, ma possono offrire numerosi spunti di riflessione. Al momento stesso di prendere la penna, ogni testimone si dev’essere chiesto: “Che momento scegliere per l’avvio della storia?”. Alcuni testimoni fissano l’inizio al tempo dell’infanzia, cominciando molto prima della deportazione e ripercorrendo anni di vita “normale”. Tale scelta si riscontra per esempio nel libro di Mariconti, che scrive un’autobiografia divisa in due tomi, in una bipolarità che il titolo dell’opera ben riflette: Memorie di vita e di inferno – dove la prima parte, “Memorie di vita”, serve da contrappunto all’esperienza della deportazione (“l’inferno”)8.
La scelta dell’incipit non è mai casuale, tantomeno in testimonianze di questo tipo, che s’impongono di raccontare l’indicibile, di descrivere l’inimmaginabile, proponendo al lettore di capire o di cercare di capire. La preoccupazione di non essere creduti al momento della redazione, come anche l’angoscia provata durante la prigionia, di non poter ritornare per rivelare al mondo la realtà del lager, sono topoi presenti e costanti in tutti i testi: “Mai nessuno ci crederà se avremo la fortuna di sopravvivere e raccontare”9. L’incipit, punto strategico che capta l’attenzione del lettore, è impregnato di queste esitazioni e paure.
A parte Sarri e Mariconti, molti testimoni che sono ex partigiani e resistenti fanno coincidere naturalmente l’incipit del racconto con l’inizio della lotta armata, prima dell’arresto. Tale prassi consente al narratore di descrivere i suoi atti di uomo libero, prima di diventare una vittima priva d’identità. Il fatto di raccontare la propria lotta antifascista attiva e convinta, e non solo i torti e le sofferenze subite in nome di quella, permette di fornire le premesse alla prigionia, certo, ma anche di illustrare la propria esistenza di essere umano, prima della degradazione, e di descriverne l’identità intera, a tutto tondo, con le proprie scelte, i propri sentimenti, il proprio spirito d’iniziativa. Per queste ragioni non stupisce che alcuni testimoni dedichino una prima parte (che può occupare anche buona metà del libro) alle scelte di vita che precedono la deportazione, giustificano l’arresto, ma forniscono anche e spesso la motivazione a resistere durante i mesi del Lager.
Per molti di loro, è inconcepibile dimenticare la “battaglia”. Lo stesso vale per l’arresto e il periodo dell’incarcerazione in Italia, durante il quale molti hanno subito interrogatori disumani con torture fisiche, e l’angosciante attesa della fucilazione imminente. Soltanto dopo queste tappe inderogabili del racconto possono cominciare il resoconto del Transport e della sopravvivenza nei campi.
La struttura tipica delle nostre testimonianze segue spesso questa progressione: resoconto della lotta armata (militare e/o partigiana), arresto, interrogatorio e tortura nelle prigioni della Gestapo, campo di smistamento di Bolzano, Transport, arrivo a Flossenbürg, vita e morte nel campo, trasferimento in altri campi/Marcia della Morte, liberazione e rimpatrio, ritorno a casa.
A questa struttura tipica fa eccezione una testimonianza, che propone la variante interessante di un ex abrupto, l’unico di tutto il corpus. Il mio diario, di Rusich, comincia direttamente nel sotto-campo vicino a Pirna, presso Dresda, e contraddice radicalmente quello che si è appena affermato10. Ma questo testo si distingue dagli altri da più punti di vista, come vedremo più avanti.
Per quanto riguarda la delimitazione finale, i libri si concludono quasi sempre con il ritorno a casa. Lieto per alcuni, tragico per altri, il ritorno a casa è un segmento narrativo che merita molta attenzione.
Spicca l’esempio di Da Prati, che rievoca il proprio ritorno alla terza persona, parlando di un reduce e trasgredendo alla prima persona del resto del libro. Una scelta narrativa estremamente interessante, in cui l’“io” cede il posto all’uomo in generale, mentre la scena si fa assurda e riecheggia un’altra famosa storia di ritorno a casa, in quel caso di un soldato: il celebre radiodramma di Wolfgang Borchert, Draußen vor der Tür11.
A Savona la macchina non ha più proseguito. Ora il reduce sta attraversando come un inebetito, un automa, il corso principale della città.
Chissà perché la gente sui marciapiedi lo guarda con aria incuriosita? … Egli cammina con un piccolo fardello sulle spalle, in uniforme militare da ufficiale dell’aviazione tedesca, a ostenta sul petto un distintivo: un nastrino rosso: è un reduce politico. Va avanti trascinandosi chissà dove, con lo sguardo ancora assente del moribondo.
Qualche cittadino gli si avvicina sorreggendogli il fardello; gli chiede:
– Scusi, viene dalla Germania? – Egli guarda il suo interlocutore senza rispondere come se bastasse il volto e lo sfinimento. – Ma lei deve riposarsi! Avrà molta fame! Chissà quanta strada ha fatto a piedi!
Altri ancora si avvicinano al reduce. Egli balbetta un po’ fuori di sé:
– Non sono stanco! Sono venuto in macchina da Dachau …12
La scelta di descrivere il proprio ritorno alla terza persona stupisce proprio in un testo come quello di Da Prati che, in altri momenti, si lascia andare a toni d’intensa retorica. Qui, il protagonista incarna la figura del reduce – parola ripetuta spesso nel testo, per insistere sull’anonimato e scandire il discorso – un reduce qualsiasi, il reduce assoluto, simbolico. Anche le persone che lo interpellano sono interlocutori qualsiasi, passanti, rappresentanti di una collettività che non ha visto niente ma che assiste incredula al ritorno dei sopravvissuti, in condizioni fisiche penose. Sembra un reduce qualsiasi – anche se, a tratti, ritorna a essere incontestabilmente il protagonista: lo dimostra il numero di deportato, n. 6017, citato spesso in queste pagine13. Ma occorre dirlo? Proprio questo numero, simbolo della perdita dell’identità nei lager, non riesce a restituire nome e cognome al reduce, in un giorno come questo. Proprio quando ci si aspetterebbe di veder infine riconosciuta la sua umanità, il giorno del ritorno a casa, quando sarebbe logico veder riconfermata la sua identità civile nel luogo a cui apparteneva, dalle persone che lo conoscevano, proprio in questo momento, invece, l’identità sparisce completamente e resta solo il numero da Häftling, che lo segna ormai per sempre. Il racconto alla terza persona continua per tutto il brano, fino alla fine del libro, a rafforzare la convinzione che Da Prati non descrive (solo) il proprio ritorno, ma il ritorno potenziale di tutti i superstiti: “Così, come lui, ritornano tutti i superstiti deportati politici in Italia, nelle loro case”14.
Un altro finale originale si trova nel libro di Bocchetta, il quale inscena un dialogo immaginario con i compagni morti che ritornano come spettri a parlare con l’io narrante. Tutta la sequenza è in corsivo, avvolta in un’atmosfera onirica e delirante, più incubo che sogno. Una messa in scena grottesca, che contrasta con il cliché rassicurante e positivo del ritorno a casa.
Dal buio esce Deambrogi e si siede vicino a Viviani, è triste, ha gli occhi gonfi di pianto: “Peccato!” singhiozza. “Peccato che tu non sia qui” ed i singhiozzi gli soffocano la voce: “Deambrogi, perbacco!” lo conforto. “Deambrogi, sei un uomo, non fare così” e lui smette di piangere, sorride e mi indica gli altri seduti vicini, in un crocchio nel buio: Bravo, Domaschi, Burattini e Zenorini.
“Arturo!” grido. “Dove sei stato? Ti ho cercato a Hersbruck, non t’ho visto, non sei più tornato … e voi, Domaschi, Burattini, Bravo, dove vi hanno portato? E tu, Viviani? Ricordi Viviani? Ricordi, occhio d’aquila, gamba di cicogna?”. Viviani non ride, Viviani resta serio e severo come un monumento di marmo15.
Rileggendo l’ultima frase categorica, alla luce dei dialoghi con i morti che la precedono, la situazione si capovolge: il reduce testimone non avrà interlocutori al suo ritorno a Verona, è vero, ma anche perché continua a dialogare con i suoi compagni. I fantasmi con cui parla nel suo delirio rimpiangono che lui non sia con loro: la prigionia, pur nella sua conclusione funerea, significa amicizia e parola, mentre la vita potrà essere soltanto solitudine e silenzio.
Alcuni testimoni proseguono il racconto della propria vita dopo il 45, come Ponzuoli, Mariconti e Scollo. Ma la loro scelta non è più ottimistica di Da Prati e Bocchetta, anzi: traspaiono in ogni riga amarezza e disillusione. L’attesa impotente di una pensione d’invalidità per Ponzuoli, l’impegno politico dapprima entusiastico e poi deluso per Mariconti, la scoperta della misera accoglienza e della mancata riconoscenza sociale e politica, riassunta da Scollo in poche righe:
Più gli anni passano più restano vivi nel mio ricordo i compagni di deportazione, cui si aggiungono in seguito i morti dopo il rimpatrio. Fra questi Dorino, che ha lasciato la moglie e due figli piccoli, senza aiuti né pensione, a causa di incuria, dimenticanza, leggi inique. È così per tutti coloro che sono morti in conseguenza della deportazione, ma dopo la liberazione: la pensione di guerra non viene riconosciuta senza adeguati documenti, certificati, timbri, e qui non c’è da pensare che i nazisti rilascino certificati di malattia contratta nel Lager.
Col tempo i superstiti hanno riacquistato l’aspetto di tutti gli altri. Ma non sono come gli altri: il fisico, l’animo, le memorie sono rimasti segnati16.
I pochi testimoni che proseguono la narrazione oltre la conclusione “storica” del 1945, come Scollo, raccontano un’altra triste storia, spesso trascurata: la lotta burocratica e civile dei superstiti per essere riconosciuti e aiutati (il che significa anche rispettati), l’inefficienza dei servizi sociali, l’indifferenza delle istituzioni, o addirittura l’incredulità della gente. Leggere queste ultime frasi di Scollo ci riporta al bel libro di Charlotte Delbo, Le convoi du 24 janvier, che mette ben in evidenza questa squallida conclusione17 .
I documenti allegati e il materiale fotografico
Raramente la testimonianza scritta è costituita esclusivamente da un testo; assai più spesso è arricchita e corredata da un apparato documentario che suscita qualche altra riflessione. L’esigenza di inserire e aggiungere documenti che possano confermare, provare e approfondire lo scritto è infatti condivisa da tutti i testimoni, senza distinzione. Gli allegati occupano molte pagine e s’impongono all’attenzione del lettore per il loro aspetto iconografico. Tuttavia, appartengono a categorie diverse, che possiamo cercare di elencare qui sotto:
– i documenti personali che provano la veridicità dell’esperienza, come la foto del numero di matricola sulla stoffa dell’uniforme, la carta d’identità o la tessera di partigiano, le lettere o le fotografie, la copia della pagina del registro del campo.
– i documenti che permettono di approfondire gli eventi storici o forniscono una documentazione più vasta: la cartina geografica dei campi di concentramento d’Europa, le numerose foto di campi di concentramento – tra cui alcune ben note, scattate alla liberazione –, che costituiscono un inserto oppure sono integrate al corpo del testo.
– i disegni fatti dai testimoni stessi e che possono quindi illustrare alcuni episodi che raccontano. Si trovano numerosi schizzi e disegni nei testi di Bocchetta e Rusich.
– le testimonianze di altri compagni, più brevi, aggiunte però alla fine del libro.
I documenti personali che legittimano la storia raccontata, e la documentazione informativa riguardante altri campi di concentramento o il sistema concentrazionario in generale, sono inseriti nel libro senza un criterio preciso. Si trovano inframezzati tra una pagina e l’altra ma per tutta la durata del libro (Da Prati, Pascoli, Misul, Cantaluppi), oppure raccolti in un solo punto del volume, al centro o alla fine (Varini, Ponzuoli, Rusich, Bergamasco). Rare sono le testimonianze prive di questo apparato paratestuale. Quelle che ricorrono alla documentazione sui campi di concentramento in generale, con immagini tratte dagli archivi fotografici di Buchenwald o di altri campi non precisano necessariamente nelle didascalie la differenza di luogo, lasciando pensare al lettore inconsapevole che si tratti d’illustrazioni del campo in questione: per esempio, le didascalie alle immagini nel testo di Da Prati riprendono citazioni del libro, pur mostrando materiale fotografico vario, riguardante soprattutto lo sterminio di massa. Altre edizioni, invece, sono corredate di didascalie esaurienti e dettagliate, che costituiscono piccole sezioni di approfondimento sulla questione: per esempio, l’appendice alla fine del volume di Varini, oppure la sezione centrale nel libro della Bergamasco che s’intitola “Luoghi e immagini”18. Quest’ultima, in particolare, ci sembra esemplare nella prassi di illustrare diversi soggetti contemporaneamente. Accanto alla foto della giovane Elvia in compagnia di un’amica è inserita una foto storica della deportazione degli Ebrei, accompagnata dalla didascalia: “Un’immagine tratta dalla celebre sequenza della selezione degli ebrei ungheresi al loro arrivo ad Auschwitz nell’estate 1944”19. Siccome Elvia Bergamasco non è né ebrea né ungherese, l’accostamento fotografico si basa sul criterio tematico della deportazione, preso in senso lato e proposto al lettore con associazioni di questo tipo. È chiaro che tali decisioni sono prese in accordo con l’editore al momento della pubblicazione, se non addirittura proposte dall’editore stesso. La presenza di materiale fotografico di questo tipo influenza sicuramente la ricezione del lettore, sia al momento di prendere il libro in mano, per la prima volta, sia durante la lettura. A maggior ragione quando una tale fotografia si trova in copertina, come per esempio nel libro di Rusich de Moscati, e in quello di Elvia Bergamasco. Il primo presenta in copertina un ingrandimento ritoccato della celebre foto del bambino ebreo con le braccia alzate, foto presa durante il rastrellamento del ghetto di Varsavia, il secondo libro mostra un’immagine di prigioniere dietro il filo spinato del lager femminile di Mauthausen, al momento della liberazione.
Per questi e altri motivi, l’argomento del paratesto “documentario” potrebbe dar luogo a riflessioni più ampie altrove. Qui ci limitiamo a constatarne la frequenza e a ipotizzare un nesso tra testimonianza scritta e immagine d’archivio.
La comprensione del tedesco, lingua di sopravvivenza
Per la gran maggioranza dei prigionieri italiani, il tedesco era una lingua ignota prima della deportazione. Segnaliamo subito due eccezioni: quelli che venivano dall’Istria o dalla regione di Trento, che padroneggiavano molto bene questa lingua (Rusich, Agosti), e quelli che l’avevano imparata per motivi professionali o di studio (Cantaluppi). La massa degli Italiani era sprovvista anche di quella capacità di comprensione superficiale del tedesco che contraddistingueva altre popolazioni d’Europa. La non comprensione totale degli ordini dei Kapò o di quelli delle guardie seminava un vero e proprio panico tra le file dei deportati italiani (o tra quelle di altre nazionalità nella stessa situazione), faceva sembrare gli ordini ancor più spaventosi e costituiva un grande soggetto di discussione negli scambi tra i prigionieri, quando non addirittura un motivo di aiuto reciproco. Anche nelle testimonianze si coglie molto bene tale dolorosa consapevolezza di non comprensione assoluta del tedesco – o della lingua ibrida gridata nei campi, che si tramuta in paura, poi panico e induce molti prigionieri all’errore.
Quello che potremmo definire terrore linguistico costituisce davvero un tema ricorrente, nelle testimonianze italiane di Flossenbürg, e si esprime in modi diversi, secondo le origini del testimone o la durata della deportazione. Coloro che capiscono il tedesco traducono gli ordini ai compagni, facendo funzione di interpreti fino a diventare, in alcuni casi, persone di riferimento per tutti, veri e propri eroi, angeli custodi del campo di Flossenbürg, come attestano le figure di Teresio Olivelli, di Luigi Villa e di Paolo Carpi, ricordati da molti testimoni20. Il terrore linguistico comincia a farsi sentire fin dal Transport, e ricompare in tutta la sua forza all’arrivo del campo, nella scena che si ripete analoga in moltissime testimonianze:
Poi gli inservienti delle docce, che portavano un triangolo verde […], ci ordinarono di entrare. Ce lo dissero nella loro lingua, l’interprete si era allontanato e noi non capivamo: allora brandirono dei grossi tubi di gomma e a forza di botte ci fecero capire tutto, di lavarci e di rivestirci21.
Il terrore linguistico, da non sottovalutare rispetto alle umiliazioni fisiche e psicologiche, fa parte delle primissime impressioni condivise da tutti, e genera un primo grande ostacolo per i nuovi arrivati: la necessità di imparare a memoria il proprio numero di matricola, indispensabile per rispondere all’appello e reagire prontamente in qualunque altra situazione critica. Ecco come Varini lo ricorda:
Mi feci ripetere da Olivelli il mio numero e mi avviai. Dovevo percorrere un tratto di strada per giungere alle latrine, prima di entrare dovevo togliermi il berretto e, inquadrato dal proiettore della torre di controllo, urlare il mio numero di matricola: hundertsiebzehnnullfünfundsechzig (117.065); dopodiché dovevo procedere22.
Imparare la cifra che sostituisce l’identità e coglierla al volo nel modo precipitato con cui i Kapò la proferiscono, era qualcosa di difficile ma di fattibile, con un po’ di esercizio e qualche aiuto, come Varini e altri raccontano. Ben più arduo era invece capire ordini più complessi in un Kommando, o spiegare le proprie ragioni in caso di problema: ed era spesso una questione di vita o di morte. L’apprendimento della “lingua di sopravvivenza”, doveva farsi molto in fretta e passava spesso attraverso l’aiuto dei compagni che capivano già o che imparavano prima23. Dopodiché, ognuno si salva come può. Non mancano gli esempi di situazioni in cui i prigionieri si sono fatti capire e si sono salvati grazie a una frase miracolosamente detta in tedesco: ricordiamo il caso di Scollo, che si difende da una falsa accusa al cospetto di una SS, con grande stupore del Kapò incredulo24.
Sempre in quest’ambito, è interessante notare che la “lingua di sopravvivenza” del campo, quell’ibrido di tedesco, di polacco, di russo e di altre parole che formano il gergo parlato dai gerarchi e potenti, lascia tracce evidenti nei testi scritti. Anche al di fuori di Flossenbürg gli esempi abbondano, a cominciare dal Wstawac di Primo Levi25. I testimoni divenuti narratori riportano tali parole come le hanno sentite, in una specie di trascrizione mimetica uditiva. Tali parole sono caratterizzate per esempio da errori di ortografia che attestano l’apprendimento esclusivamente orale da parte di chi scrive: come Austen per Aufstehen, Minski per la ciotola, e via di seguito26. La persistenza indelebile di queste parole nella memoria e la loro trascrizione “letterale” richiama l’impressione profonda provata all’udire queste parole nel contesto del lager: infatti, il testimone non pensa neppure a tradurre i termini direttamente in italiano, ma preferisce trascriverli in originale nel testo e fornire piuttosto la traduzione tra parentesi, in qualche raro caso27, oppure lasciare che il lettore li capisca da solo. In modo forse inconsapevole, il testimone intende conservare l’effetto sonoro e spaventoso della parola, come risuonava nella realtà del campo. Nessuna traduzione potrebbe rendere quest’effetto.
Il narratore non può sopprimere il termine tedesco in favore di una traduzione anche per altri motivi. Nella sua concretezza e autenticità, esso collega la dimensione dell’esperienza e del trauma a quella del ricordo e della scrittura, ed è perciò necessario, insostituibile – mentre la traduzione italiana corrispondente è venuta molto più tardi, forse al momento stesso di redigere le proprie memorie. La terminologia tedesca del lager è onnipresente nei resoconti di deportazione, che siano scritti in italiano o in altre lingue. Invece la sua traduzione italiana (o francese, o polacca, o russa), è venuta dopo, ed è quindi secondaria, accessoria. Naturalmente, anche la distanza temporale e la conoscenza del pubblico influiscono sulle scelte linguistiche: negli anni Novanta, i termini del Lager sono ormai entrati nel vocabolario comune e possono essere riconosciuti da qualsiasi lettore, senza avere nozioni di tedesco. Tutti i testimoni di questo periodo possono quindi parlare di Transport, di Appelplatz, di Block (scritto anche Blok) e di Kapò28, senza rischiare di non essere compresi.
Livello di cultura e stile
Diverse testimonianze sono ben scritte, in un italiano corretto e notevole, come per esempio quelle di Cantaluppi e Agosti. Questi due libri, ristampati più volte, sono d’altronde più disponibili di altri – forse anche perché sostenuti dalle rispettive istituzioni. Tuttavia, pur senza aver ottenuto un tale successo editoriale, altre due testimonianze spiccano per il linguaggio elegante e forbito, lo stile scorrevole e piacevole alla lettura: quelle di Vittore Bocchetta e di Sergio Rusich de Moscati, i due professori ai quali si è già accennato.
Può fungere da esempio un brano in cui Bocchetta descrive il suo arrivo a Hersbruck:
La grande autorità locale è lo Schreiber, detto anche block-aeltester, kapo onnipotente, padrone assoluto di anime e corpi, il Satanasso della nostra residenza di quattrocento dannati. Percosse, sottomissione, paura, non capire e morire. Questa è la realtà irreale di quest’allucinazione. Flossenburg [sic] è passato ad essere il Limbo, Bolzano lo Stige e gli Scalzi il paradiso perduto29.
Com’è possibile notare in queste poche righe, Bocchetta fa largo uso dell’allegoria e della metafora. Il suo linguaggio ricco, elaborato e quasi barocco non appesantisce tuttavia la struttura della frase e il ritmo della narrazione, che al contrario sorprendono piacevolmente il lettore con le metafore e le immagini che sopraggiungono inaspettate anche nelle situazioni più drammatiche.
Assai diverso da quello di Bocchetta ma altrettanto interessante, il libro di Rusich presenta uno stile meno sontuoso, meno ironico, privo di allegorie ma invece semplice, cristallino, limpido, che tocca direttamente il cuore. Un resoconto degli avvenimenti molto sobrio e poetico insieme. Ecco il brano che narra l’esecuzione dei prigionieri russi sulla piazza dell’appello:
Io non voglio guardare, pure devo essere testimone di quello che accade. Al momento fatale della prima esecuzione chiudo gli occhi, dopo un po’ li riapro per constatare se è finita l’agonia. In quel petto ignudo, strozzato il collo, il cuore ancora batte con estrema violenza. Abbasso il capo e non lo sollevo più. Ritorniamo in baracca ed io cammino guardando le punte dei miei zoccoli di legno; dentro mi sento distrutto30.
La lettura di queste due testimonianze spinge alla riflessione. Il loro impatto sul lettore è diverso da quello degli altri libri grazie allo stile elegante, alla costruzione narrativa, ma anche e soprattutto alla profondità della riflessione umana che sostiene e commenta il resoconto dei fatti.
Citazioni e riferimenti culturali possono anche indicare il grado di cultura, ma dipende dal modo di inserirli e dalla quantità. Per esempio, i riferimenti generali alla cultura italiana abbondano, prima fra tutti l’allusione all’Inferno di Dante che si trova innumerevoli volte nel nostro corpus ristretto come altrove31. Ma della Commedia di Dante alcuni testimoni mostrano una conoscenza più approfondita, come Bocchetta, Cantaluppi, Rusich. Oltre a Dante, altri riferimenti culturali propongono un elemento di paragone con la realtà vissuta: la celebre descrizione della peste fatta da Manzoni nei Promessi sposi, il testo di Pellico sulla prigione austroungarica dello Spielberg, Vittorio Alfieri, o ancora il Candido di Voltaire, su cui Bocchetta discute in francese con un medico del Revier32. Ogni testimone ha il proprio bagaglio culturale, certo, ma ognuno, allo stesso modo, sente l’esigenza di trovare un modello che possa illustrare o spiegare la realtà inammissibile del campo. Armando, per esempio, fa riferimento a un affresco in una chiesa di campagna che rappresenta una scena dell’Apocalisse – visto per caso negli anni della macchia – e lo mette in relazione adesso, con quanto vede intorno a sé.
Un altro aspetto stilistico importante che contraddistingue alcune testimonianze e non altre consiste nell’uso dell’ironia. Nel caso più tipico, questa è usata come un’arma lanciata contro gli aguzzini – una piccola rivincita del testimone-narratore rispetto al prigioniero in loro balia. Per esempio, Cantaluppi non risparmia l’ironia nel presentare il Kapò “musicista”:
La domenica, il maestro dirige una banda di ottoni che si esibisce fra la più completa indifferenza dei deportati, nella Wäscherei.
Questo grande artista uccise il padre perché gli negò del denaro. Transfuga dopo il delitto, ritornò a casa qualche tempo dopo e, trovata la madre in lutto e in lacrime, non sopportò, figlio amoroso, tanto strazio ed uccise anche lei.
Per titoli, ossia per aver ucciso a botte parecchi internati, le SS, riconoscenti, lo fecero caposervizio33.
Se è frequente cogliere il tono di sarcasmo qui adottato da Cantaluppi, nel caso di Bocchetta, però, l’ironia non si rivolge soltanto agli aguzzini, ma s’insinua proprio laddove non ci si aspetta di trovarla. Essa colpisce tutti allo stesso modo, aguzzini e vittime, momenti e luoghi. Regna sovrana perfino sui brani più tragici e miseri. La ritroviamo per esempio nella descrizione della “stufa umana” che i prigionieri formano con i loro corpi ammassati cercando di riscaldarsi.
“Raus, Raus, Raus!”. Il randello stavolta è più veloce di me.
Fuori! Fuori! C’è una forte bufera di neve e siamo in settembre. Neanche le stagioni si rispettano in Germania. Tremiamo e il nostro freddo è più freddo delle nostre lacrime e i nostri nasi s’induriscono in ghiaccioli.
Qualcuno grida qualcosa che non capisco e tutti corrono uno contro l’altro. Come i buoi muschiati dell’Artico, facciamo circolo uno addosso all’altro. I più fortunati sono nel centro, chi arriva dopo ripara chi arriva prima. Stiamo lì fuori per più di due ore, due ore che sembrano secoli e ancora ci resta la forza di chiederci perché34.
La testimonianza indiretta: ricordo dei compagni
Il testimone non è solo. Se sembra esserlo al momento di scrivere, unico sopravvissuto, è in realtà circondato da una moltitudine di compagni e amici stretti, che diventano quasi coprotagonisti della sua testimonianza. Poiché i compagni di deportazione sono quasi tutti scomparsi, il narratore sente il dovere di farne il ritratto per il lettore, e di testimoniare anche per loro, ripetendo cosa hanno detto, quello che hanno sofferto, come sono morti. Un tale sentimento solidale, tanto comprensibile quanto ammirevole e umano, si manifesta in vari modi nel testo.
Possiamo trovare per esempio un elenco dettagliato di nomi, che ricorda tutti i compagni in una determinata situazione – come la formazione di un Kommando o di un Transport. Non importa al testimone che l’elenco appesantisca la scorrevolezza del racconto, perché si sente in obbligo di citare tutti quelli di cui si ricorda:
Alcuni giorni dopo, improvvisamente, dopo la conta, il Blockältester mi chiamò insieme ad Angelo Bertani, Carlo Trezzi, Pietro Strada, Paolo Carpi, Gianni Riccardi, Beppe, Massimo Carrito, Vincenzo Attimo, un genovese e un paio di giovani di cui non ricordo il nome, tutti minori di diciotto anni: ci misero in fila e via!35
Ancora più spesso, il narratore prende in considerazione un personaggio in particolare, un compagno di sventure diventato un carissimo amico, che non è sopravvissuto. Nella redazione della testimonianza, come nella memoria del testimone, l’amico svolge un ruolo centrale, sempre presente a fianco dell’io narrante. Come Primo Levi con il personaggio di Alberto negli episodi di Se questo è un uomo o in altri scritti, anche alcuni dei nostri testimoni sono sempre accompagnati da un amico, che diventa a tratti un alter ego del narratore.
Ricordiamo per esempio la figura di Piero Squadrani per Rusich de Moscati: un amico assassinato durante la Marcia della Morte, quasi alla fine della prigionia. Rusich ne fa il ritratto in senso proprio e figurato: con le matite, disegnandone il viso a memoria e inserendo il disegno nel libro36, e con le parole, raccontando di lui in modo affettuoso e commovente. Questo doppio ritratto diventa la lapide che l’amico non ha avuto, un omaggio postumo alla sua sofferenza e lotta per la vita.
Il mio caro amico e coetaneo Piero Squadrani morì prima, in territorio cecoslovacco, ai confini con la Germania. Dopo giorni e giorni di permanenza forzata nei carri merci senza copertura, viaggiando senza meta da una stazione all’altra nello stretto corridoio del territorio tedesco non ancora occupato, ai prigionieri fu concesso di scendere per i loro bisogni corporali.
Con l’ingenuità che gli era propria si allontanò di alcuni passi dirigendosi verso un cumulo di rape marce […]. Quando i suoi compagni si accorsero che il vecchio posten imbracciava il lungo fucile prendendo la mira verso di lui, lo chiamarono con grida accorate e come si voltò la pallottola di precisione lo centrò nel bel mezzo della fronte.
Nella dedica commemorativa i suoi genitori, a Gorizia nel Luglio del 1945, scrissero di lui:
Pierpaolo Squadrani
D’anni 19, universitario
internato quale “lavoratore”
al Campo di Concentramento di Flossenburg
il 16 Dicembre 1944
assassinato da militare tedesco
a Lobositz il 28 Aprile 1945
Germania! …37
In questo caso, non solo la dedica dei genitori, ma la testimonianza stessa funge da lapide all’amico, riproducendone l’aspetto e la funzione sulla pagina.
Un ricordo più commovente può andare a un compagno particolare, che si distingue dagli altri per una ragione precisa. Per esempio, Teresio Olivelli è ricordato dalla maggioranza dei testimoni per aver aiutato gli altri come Dolmetscher e, più tardi, come Schreiber in un blocco di Hersbruck. Olivelli prodigava aiuti con generosità e abnegazione, senza mai stancarsi né perdere la forza d’animo. La sua rettitudine nei campi, unita alla sua fede cattolica, che non l’hanno risparmiato dalla morte, hanno giustificato vari riconoscimenti, tra cui la decisione della Chiesa cattolica di avviare la procedura di beatificazione, in tempi recenti. Un altro esempio che troviamo in Rusich è quello del professor Diena di Torino, medico e professore universitario, attivo nel Revier, che donava il suo pane per procurarsi la carta destinata alle medicazioni dei feriti. Rusich ne lascia un ritratto commosso e intenso38.
Qualche volta, la testimonianza ricorda un compagno scomparso verso il quale il testimone sente un senso di colpevolezza profonda. Può esserci una ragione precisa, una responsabilità, un’implicazione involontaria nella morte o nella deportazione dell’altro. Naturalmente, il senso di colpevolezza nei confronti dei compagni morti nel lager, soprattutto di quelli per cui si sente un forte affetto, può manifestarsi anche senza ragione apparente, per il semplice fatto di essere sopravvissuto. Il reduce testimone, pur consapevole di essere scampato alla morte per una concomitanza di fattori fortuiti, tende tuttavia a pensare di non aver compiuto l’esperienza fino in fondo, fino alla morte, e che i “veri” testimoni sarebbero i compagni scomparsi, appunto39.
Per quanto riguarda il senso di colpa nei confronti di un compagno, ricordiamo il percorso esemplare di Gian Dalla Bona, il medico eroe della resistenza che Bocchetta descrive nella prima parte della sua opera. Ricordando la figura dell’amico e compagno di lotta, il narratore è colto da un profondo rimorso per avergli consigliato di entrare nella resistenza, provocando quindi involontariamente la sua morte orribile. In suo omaggio, Bocchetta inserisce due foto di Dalla Bona, una che lo ritrae in vita e l’altra post-mortem40: quest’ultima costituisce una nota particolarmente cruda nella testimonianza e colpisce il lettore in modo irreversibile. La decisione di inserire questa foto non va sottovalutata, per l’impatto che produce.
Ricaviamo dal testo di Mariconti un altro esempio di ritratto in cui si mescolano colpevolezza e affetto: l’ebreo che, durante la Marcia della Morte, si era nascosto nel gruppo degli Italiani infilando una giacca di Mariconti con il triangolo rosso. Purtroppo tradito da una spia, è linciato dalle SS, lasciando l’amico italiano in preda a sentimenti contrastanti, disperazione, rabbia, ma anche rimorso di non averlo potuto proteggere fino in fondo41.
Testimoniare la morte di un compagno supera umanamente i limiti della scrittura. Ciononostante, il fatto di (de)scriverla nero su bianco, in un resoconto doloroso, sembra meno impossibile che raccontarla alla famiglia della vittima. I reduci si sono dovuti sottoporre a questa prova terribile, al loro ritorno in Italia: portare la notizia alle madri, ai padri e alle mogli o sorelle dei compagni uccisi barbaramente. Quasi tutte le testimonianze alludono a questa dolorosa esperienza nella parte finale. Scollo, per esempio, ricorda più volte i compagni Emilio e Tino (pseudonimi di Franco Severgnini ed Ernesto Bonfanti), che con lui hanno diviso moltissime esperienze, essendo stati tutti e tre nello stesso block dei minorenni. A Scollo incombe il dovere penoso di raccontare il lager alle madri rispettive, come qui racconta:
Parlano, mi chiedono, e io ho la gola chiusa e non so cosa dire loro. Sono certo che se non è giunta nessuna notizia Emilio è morto. Ma come faccio a dirlo a sua madre? Se vuole sapere come si moriva nei Lager, come faccio a dirle gasato, bruciato vivo, vivisezionato, annegato, buttato nella calce viva, sul filo elettrificato, sgozzato, impiccato, ammazzato di botte, di fame, di freddo, di sete, in ogni caso dopo aver atrocemente patito? Per anni, in seguito, ho parlato pochissimo soprattutto a madri e a spose di amici, per riguardo alla loro sofferenza42.
L’Italianità: atti di razzismo e pregiudizi
A causa dell’armistizio firmato dal generale Badoglio in Sicilia, considerato come un tradimento dai nazifascisti, i prigionieri italiani nei campi di concentramento erano insultati dai triangoli verdi tedeschi, che li chiamavano “traditori” e “Badoglio”. Questo si riscontra in ogni testimonianza di una prigionia posteriore all’8 settembre 1943. Ma non è tutto. Essendo stati ufficialmente alleati dei nazisti prima dell’armistizio, e in parte anche dopo, con la Repubblica di Salò, gli Italiani erano considerati nemici dai prigionieri di altre nazionalità, che li denigravano chiamandoli “fascisti” e “Mussolini”. Si può capire come questo fosse un insulto inammissibile per i prigionieri politici italiani di cui ci occupiamo che erano stati deportati proprio in quanto antifascisti e partigiani. Gli Italiani si trovavano quindi tra l’incudine e il martello, e soffrivano in ogni situazione non solo d’insulti e pregiudizi, ma anche di percosse e umiliazioni.
Per illustrare l’argomento con un esempio concreto, leggiamo la storia di una punizione razzista subita da Frida Misul, internata nel campo di Wilischtal:
Mentre avvicinavo la scodella, la Kapò mi guardò in viso e mi disse: “Tu italien”, ed io tutta sorridente risposi di sì.
Alla mia risposta mi diede una bastonata dicendomi che per gli italiani non esisteva supplemento, perché noi eravamo considerati dei vili e dei traditori. Mi prese il nodo alla gola e cominciai a piangere, allora quella maledetta Kapò mi prese per un braccio e mi portò nel blocco dove c’erano le mie amiche, poi chiamò due tedesche e mi fece bastonare a sangue. Quando videro che ero priva di forze, mi chiesero se avevo ancora fame, poi mi lasciarono lì per terra dove grondavo sangue dal naso e dall’orecchio. Le mie care amiche vennero subito a darmi aiuto, cercarono di farmi riprendere forza e con buone parole cercarono di farmi coraggio dicendomi di sopportare con rassegnazione tutti gli insulti che ci venivano fatti senza mai poterci difendere43.
L’esperienza traumatica dell’italianità nel lager, con gli episodi di violenza che ha provocato, costituisce quindi un altro topos della scrittura di queste testimonianze44.
Motivazione e resistenza nel campo
Fortunatamente, l’italianità non costituisce solo un tema in negativo legato al ricordo d’ingiurie e sevizie. In altri casi, l’origine diventa addirittura motivo di fierezza e di amor di patria, come per tutti gli Häftlinge di diverse nazionalità. Abbondano tra i prigionieri i racconti nostalgici di paesaggi italiani, di piatti tipici, di bellezze artistiche e naturali, che infondono orgoglio e malinconia nel deserto del lager. Numerosissimi i brani che forniscono esempi di quello che si potrebbe chiamare il ritratto idealizzato del proprio paese. Vista dagli occhi dei prigionieri di Flossenbürg, l’Italia assomiglia all’Eden e alimenta la speranza del ritorno. Il richiamo costruttivo dell’Italia idealizzata è possibile soltanto al cospetto dei compagni italiani, il che alimenta ulteriormente quel senso di solidarietà iniziale. Quando sono insieme, i compagni possono rimemorare un luogo familiare, un pranzo in famiglia, una passeggiata domenicale, oppure fare progetti futuri di una vita felice lontana mille miglia dal lager, naturalmente in Italia, circondati dalla bellezza e dalla serenità. L’Italia diventa chiaramente un’antitesi a Flossenbürg.
Quando si produce, infatti, la separazione forzata dai compagni italiani è vista come un’orribile tragedia, ed è giusto così, perché rimasti soli, senza poter comunicare nella loro lingua, i prigionieri perdono una delle loro risorse principali. Il compagno di deportazione, l’interlocutore che ascolta i racconti nostalgici e ribatte sullo stesso tono, dà tutto il senso al discorso, mentre i sogni e i pensieri individuali non servono a molto, in questo contesto. Il dialogo e lo scambio, il fatto di condividere non solo il dolore ma anche il sogno, sono qui descritti da Bocchetta:
Ma quando, nello spiazzo infame e nell’odore del crematorio, mi ritrovo con i miei vecchi amici, divento ancora me stesso, fino a parlare addirittura di domani e di fuga e di pacchi dall’Italia e della Croce Rossa e di cibo, su una tovaglia bianca con le mani della moglie, della figlia, della mamma, di paste al caffè, di latte alla mattina e di un bicchiere di vino. Di vino: io, che sono astemio e mi ripugna l’alcol; io ho voglia di un bicchiere di vino e ne ricordo il profumo come un alcolizzato45.
La forza del ricordo o del progetto è incredibile.
Per i nostri testimoni che riescono a ritornare davvero e descrivono il momento di valicare le Alpi, il ritratto idealizzato dell’Italia, prima solo astratto, diventa tangibile nella descrizione delle terre ritrovate dopo il Brennero. Quasi tutti i testimoni raccontano questo momento con un’impressione di felicità suprema e una visione ideale della realtà umana e geografica del loro paese, breve parentesi di felicità pura prima di ripiombare nella delusione della realtà.
Oltre al legame nostalgico con un’Italia interiorizzata e ideale, l’italianità produce anche, tra gli Italiani di Flossenbürg, un senso di solidarietà che fornisce loro, in casi estremi, il coraggio e la forza di resistere. Si tratta innanzi tutto di una comunicazione linguistica in italiano, impregnata di ottimismo ed esortazione: Rusich non si stanca di ripetere ai compagni spossati dall’inverno nordico che bisogna “resistere fino alla primavera”, e la frase circola, sussurrata, tra le file dei prigionieri46. Ma si tratta anche di una forma di resistenza più concreta, che passa attraverso le discussioni e i progetti di fuga: due testimoni del nostro corpus (Bocchetta e Ponzuoli) sono riusciti a fuggire durante la Marcia della Morte, grazie alla comunicazione con i compagni e a una preparazione precisa. Altri, come Rusich, ascoltano i piani di fuga di compagni senza naturalmente denunciarli malgrado le minacce. Anche il fatto di non denunciare un compagno è una forma di resistenza contro gli aguzzini, come per il caso già citato di Mariconti che protegge l’amico ebreo, più sventurato di lui, sotto il simbolo “I” della sua giacca.
Come si è detto all’inizio, alcuni testimoni trovano le radici della resistenza e della motivazione in un’ideologia o una fede che li sostiene: un grande amore che lo aspetta in patria per Ponzuoli, la famiglia per Scollo, la fede cristiana per Agosti, il patriottismo e l’odio del nemico per Da Prati, l’orgoglio, la fede cristiana e l’etichetta militare per Cantaluppi, l’impegno politico di sinistra per Varini, il contributo per la resistenza con abnegazione per Geloni (come dimostra il titolo eloquente Ho fatto solo il mio dovere). In questi casi come in altri, l’ideologia alla base della motivazione pervade il racconto e risorge ad ogni pagina, costituendo una chiave d’interpretazione di ogni episodio raccontato, un commento soggettivo e personale ad ogni fatto oggettivo. Alcuni brani rendono conto dell’ideologia in toni quasi eccessivi e possono disturbare un lettore che non condivide le idee proposte.
Queste piste di ricerca possono servire per la lettura e l’analisi di un corpus delimitato di testi basati sulla testimonianza di deportazione, come i quindici testi su Flossenbürg. Naturalmente, altre idee e tematiche avrebbero un’importanza altrettanto grande, ma non è possibile trattarle qui: per esempio, il resoconto delle atrocità “comuni” fatto dai vari testimoni (la scoperta del cumulo di cadaveri nelle latrine o le esecuzioni per impiccagione, che si ritrovano pressoché in tutti i testi47), la scelta di un episodio singolo per illustrare e riassumere un insieme più grande di eventi (tipica di tutte le testimonianze), la descrizione a tinte accese che rende gli aguzzini figure infernali e mostruose e i buoni figure angeliche, o ancora l’integrazione della consapevolezza del futuro (del cosiddetto senno di poi che il narratore ha) nel contesto narrativo e diegetico della prigionia del campo, che si esprime mediante anticipazioni implicite o esplicite.
Per concludere, un simile studio di un insieme limitato e omogeneo di testi, riguardanti esperienze analoghe benché differenti, permette di riflettere sul genere più ampio della testimonianza e sulle scelte narrative e stilistiche compiute dal testimone-narratore. Tale riflessione può oltrepassare i limiti linguistici e geografici iniziali, aprendosi a nozioni valide anche per altri tipi di testimonianza. In effetti, leggere numerosi testi sullo stesso campo di concentramento nello stesso periodo storico (per noi Flossenbürg, dall’inverno del 44 all’estate del 45) ci ha permesso di partire dagli stessi luoghi, dalle stesse regole atroci e perfino da personaggi o eventi comuni per applicare i criteri del confronto stilistico e dell’analisi comparata, il che non sarebbe stato possibile con testimonianze che trattano di contesti di prigionia completamente diversi.
Giannantonio Agosti, Nel lager vinse la bontà (Milano: Artemide, 1987); Attilio Armando, Dalla Val Sangone a Flossenbürg: un piemontese tra guerra e lager (Alessandria: Edizioni dell’Orso, 2006); Elvia Bergamasco, Il cielo di cenere, a cura di I. R. Pellegrini e U. Perissinotto, (Portogruaro: Nuova dimensione, 2005); Vittore Bocchetta, ’40 – ’45, quinquennio infame (Melegnano: Montedit, 1995); Gaetano Cantaluppi, Flossenbürg: ricordi di un generale deportato (Milano: Mursia, 1995); Pino Da Prati, Il triangolo rosso del deportato politico n. 6017 (Milano: Gastaldi, 1946); Italo Geloni, Ho fatto solo il mio dovere, (Pontedera: Bandecchi & Vivaldi, 2001); Gianfranco Mariconti, Memoria di vita e di inferno (Sesto San Giovanni: Il papiro, 1995); Frida Misul, Deportazione: il mio diario, (Livorno: Benvenuti & Cavaciocchi, 1980); Goffredo Ponzuoli, “E il ricordo continua …”: memorie di un ex deportato nei campi di sterminio nazisti (Genova: Tip Graphotecnica, 1987); Sergio Rusich de Moscati, Il mio diario: a vent’anni nei campi di concentramento nazisti. Flossenbürg 40301 (Fiesole: ECP, 1991); Pietro Pascoli, I deportati: pagine di vita vissuta (Lido, Venezia: Istituto Tipografico Editoriale, 1960); Sergio Sarri, La scatola degli spaghi troppo corti (Cuneo: L’arciere, 1999); Antonio Scollo: I campi della demenza, (Milano: Vangelista, 1975); Franco Varini, Un numero un uomo, (Milano: Vangelista, 1982).↩
Si tratta della testimonianza del frate francescano Giannantonio Agosti, Nel lager vinse la bontà, la cui prima edizione risale al 1960, e quella di Pascoli, I deportati. Ricordiamo inoltre che Frida Misul aveva pubblicato una prima versione della sua testimonianza nel 1946, con il titolo Fra gli artigli del mostro nazista (Livorno: Stabilimento Poligrafico Belforte, 1946).↩
Ricordo il caso letterario costituito da Se questo è un uomo, di Primo Levi, e da quello corrispondente del romanzo Essere senza destino d’Imre Kertész (traduzione di Barbara Griffini, Milano: Feltrinelli, 2007). Per quest’ultimo caso, vedi anche il romanzo in cui l’autore racconta l’odissea del rifiuto editoriale: Imre Kertész, Fiasco, traduzione di Antonio Sciacovelli (Milano: Feltrinelli, 2011).↩
Ponzuoli, “E il ricordo continua …”, 31.↩
Misul, Deportazione, 31 e seguenti. L’autrice italianizza il nome del campo, che diventa “Villistat”.↩
Bergamasco, Il cielo di cenere, 139: “Alle sette, mentre camminavamo per raggiungere le compagne, all’improvviso, come nel film di Benigni abbiamo visto tre carri armati uscire da un fosso. Ai nostri occhi ci sono sembrati enormi, immensi, come al bambino del film!”.↩
“Auch Elvia Bergamasco liegt in Il cielo di cenere bei ihren Zeitangaben deutlich daneben. Im Dezember 1944 will sie sich noch in Auschwitz befunden haben. Laut Flossenbürger Nummernbuch, wurde sie aber bereits am 24. Oktober nach Chemnitz überstellt”, Pascal Cziborra, Frauen im KZ: Möglichkeiten und Grenzen der historischen Forschung am Beispiel des KZ Flossenbürg und seiner Außenlager (Bielefeld: Lorbeer, 2010), 307, 311.↩
Mariconti, Memorie di vita e di inferno, 2–5.↩
Rusich de Moscati, Il mio diario, 41. Sono le parole dette dall’amico Piero Squadrani.↩
“Questo ‘Commando’ è un piccolo distaccamento del Campo centrale di Flossenburg: una località desolata accanto alla strada statale che da Pirna conduce verso Zittau e poi prosegue verso la Cecoslovacchia. La strada rimane per giorni e giorni quasi deserta poi improvvisamente si formano colonne di carri trainati da cavalli con gente appresso che segue faticosamente a piedi, molti trascinano un carretto a quattro ruote stracolmo di fagotti.” Rusich de Moscati, Il mio diario, 13.↩
Wolfgang Borchert, Draußen vor der Tür: Ein Stück, das kein Theater spielen und kein Publikum sehen will (Hamburg: Rowohlt, 1947).↩
Da Prati, Il triangolo rosso, 344–345. Il corsivo è mio.↩
“Per due giorni il deportato n. 6017 è assistito dalla carità dei Padri Cappuccini e poi in macchina si avvia per la Liguria occidentale”. Da Prati fa uso del numero anche per il compagno di prigionia che viene a fargli visita: “rivedere l’ex deportato N. 3869”. Da Prati, Il triangolo rosso, 344, 346.↩
Da Prati, Il triangolo rosso, 346.↩
Bocchetta, ’40 – ’45, Quinquennio infame, 171, il corsivo è dell’autore.↩
Scollo, I campi della demenza, 115–116.↩
Charlotte Delbo, Le convoi du 24 janvier (Paris: Minuit, 1965). Mediante una lista di schede concise e quasi burocratiche per tutte le donne che furono deportate ad Auschwitz nel suo stesso Transport, la Delbo racconta la storia che hanno vissuto, la prigionia e la morte che hanno subito. Per le poche superstiti del convoglio, la raccolta d’informazioni e la redazione della Delbo continuano oltre il 45, dando notizie precise sui rari riconoscimenti e sulle scarse pensioni ottenute a fatica. Questi brani lasciano un’impressione di amarezza e di squallore sul periodo del Dopoguerra che si ritrova tale quale nelle ultime pagine di alcuni testimoni italiani.↩
Varini, Un numero, un uomo, 113–124; Bergamasco, Il cielo di cenere, 151–188.↩
Bergamasco, Il cielo di cenere, 168–169 circa (la sezione “I luoghi e le immagini” non ha pagine numerate).↩
Olivelli è citato da numerosi testimoni, da Bocchetta che si trova a Hersbruck insieme a lui (Bocchetta, Quinquennio infame, 120), e da Varini, che gli dedica un lungo brano (Varini, Un numero un uomo, 70). Luigi Villa, che traduce di nascosto dal tedesco all’italiano, è ricordato da Rusich (Rusich de Moscati, Il mio diario, 20). Il giovane Paolo Carpi compare più volte accanto a Scollo, suo compagno di prigionia (Scollo, I campi della demenza, 74–75 e passim).↩
Scollo, I campi della demenza, 33. Il corsivo è mio.↩
Varini, Un numero un uomo, 71.↩
“Per i compagni più anziani e digiuni completamente di ogni elemento della parlata teutonica perdo del tempo con pazienza ad insegnar loro il proprio numero così precipitosamente come viene pronunciato durante l’appello. Apprendono e come, meglio del previsto”, Rusich de Moscati, Il mio diario, 19.↩
Quando il Kapò zigano lo accusa di sabotaggio, Scollo dimostra l’infondatezza dell’accusa in un tedesco basilare ma comprensibile: cfr. Scollo, I campi della demenza, 58.↩
Cfr. Primo Levi, La tregua (Torino: Einaudi, 1963), 7.↩
Armando, Dalla Val Sangone a Flossenbürg, 95; Geloni, Ho fatto solo il mio dovere, 20.↩
Vedi per esempio: “Ruhe, Ruhe, schlafen, schlafen! (Silenzio, dormite)”, e “Risuonarono nuovamente le grida ‘Arbeit, Arbeit’ (al lavoro), e verso sera ‘Fertig, fertig’ (finito)”, in Scollo, I campi della demenza, 43, 45; “Mutze aus! – Mutze ab” (‘Giù il berretto, su il berretto!’). Per ore, senza soluzione, ab, aus, ab, aus. I più deboli non si reggono; alcuni, i più anziani, muoiono subito per beffare la tortura di vivere: i pezzi caduti sono subito tolti di mezzo”, in Bocchetta, Quinquennio infame, 125.↩
Geloni, Ho fatto solo il mio dovere, 25–26.↩
Bocchetta, Quinquennio infame, 126.↩
Rusich de Moscati, Il mio diario, 38.↩
Oltre al brano di Bocchetta sopracitato, si ricordi la frase “Lasciate ogni speranza voi che entrate” citata da Scollo, I campi della demenza, 32.↩
Rispettivamente, i “monatti” di Vittore Bocchetta, in Quinquennio infame, 115. L’allusione ad Alfieri e a Pellico in Sergio Rusich de Moscati, Il mio diario, 65, 165. La discussione su Voltaire di nuovo in Vittore Bocchetta, Quinquennio infame, 136.↩
Cantaluppi, Flossenbürg, 61.↩
Bocchetta, Quinquennio infame, 119.↩
Scollo, I campi della demenza, 42.↩
Rusich de Moscati, Il mio diario, 128.↩
Rusich de Moscati, Il mio diario, 138.↩
Rusich de Moscati, Il mio diario, 23–24.↩
Sull’argomento, cfr. i testi di riferimento: Primo Levi, I sommersi e i salvati (Torino: Einaudi, 1986) e Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz: l’archivio e il testimone (Torino: Bollati Boringhieri, 1998).↩
Bocchetta, Quinquennio infame, 71–72.↩
Mariconti, Memorie di vita e di inferno, 111–113. Cfr. in particolare: “Quel volto è rimasto scolpito nella mia mente”, 113.↩
Scollo, I campi della demenza, 114.↩
Misul, Deportazione, 33.↩
Abbondanti esempi si trovano in Scollo, I campi della demenza, 39, 43, 45–46, 48, 54–55, 59, 79; in Rusich de Moscati, Il mio diario, 62, 170; Da Prati, Il triangolo rosso, 271.↩
Bocchetta, Quinquennio infame, 120.↩
Rusich de Moscati, Il mio diario, 63–64.↩
Il cumulo di cadaveri è descritto in Varini, Un numero un uomo, 71–72 e in Scollo, I campi della demenza, 34.↩
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