Dante deutsch

Riflessioni sulle traduzioni tedesche della Divina Commedia nel Novecento (George e Borchardt)

Thomas Klinkert

La Divina Commedia è stata tradotta in tedesco più di centosettanta volte1. Esistono pertanto una settantina di traduzioni complete, e un centinaio di traduzioni parziali2. Questo gran numero di traduzioni testimonia la ricezione feconda che l’opus summum di Dante ha avuto nei paesi di lingua tedesca dal Settecento in poi. Bisogna dire, in effetti, che prima del Settecento Dante era conosciuto in Germania non tanto come poeta quanto come autore politico. “Coloro che in paesi tedeschi parlano, nel Settecento, di Dante poeta, non lo conoscono, non ne hanno letto niente ed appoggiano il loro giudizio sulle nozioni trovate nella Storia della poesia italiana del Crescimbeni o nel Dizionario francese del Bayle. […] Ma anche se questi poeti tedeschi, fino al Settecento, avessero letto la Divina Commedia, certo non l’avrebbero apprezzata né riconosciuta nel suo valore poetico.”3 Nel 1767–69 Lebrecht Bachenschwanz pubblicò la prima traduzione completa della Commedia in lingua tedesca. La ricezione della Commedia come testo poetico fu promossa inoltre dallo svizzero Johann Jakob Bodmer, autore del saggio “Über das dreyfache Gedicht des Dante” (1763) e, in seguito, soprattutto dai poeti e filosofi romantici, August Wilhelm Schlegel4, Friedrich Schlegel5, nonché da Schelling e Hegel.

L’Ottocento vide la pubblicazione di due traduzioni epocali, cioè quella di Philalethes (pseudonimo del re Giovanni di Sassonia) che uscì dal 1839 al 1848, e quella di Karl Witte (1865), fondatore della Deutsche Dante-Gesellschaft (Società Dantesca Germanica) che aveva anche curato la prima edizione critica della Commedia basata su quattro manoscritti divergenti (Berlin 1862). Sia Philalethes che Witte hanno accompagnato le loro traduzioni (entrambe in versi sciolti) con un commento, sicché possono venir considerati i fondatori della filologia dantesca moderna in Germania, anzi nel mondo:

Man kann ohne Übertreibung behaupten, daß Witte und Philalethes mit ihren Werken die Dantewissenschaft der Welt begründet haben und daß damit auch für alle deutschen Übersetzungen ein fester Boden gewonnen war: der originale Text Dantes war festgelegt, und seine Erklärung war in grundlegender Weise eingeleitet.6

Questa tradizione persiste nel Novecento, secolo in cui la Commedia è stata tradotta da alcuni dei più rinomati filologi: Karl Vossler (1942), Hermann Gmelin (1949/54), Walther von Wartburg con sua moglie Ida (1963). Accanto a queste traduzioni ci sono quelle dei poeti: Stefan George (1912) e Rudolf Borchardt (1923–30), per non menzionare che le più importanti.7 Mentre Borchardt traduce il poema intero, George giustifica la sua traduzione parziale, dicendo che una vita intera non sarebbe sufficiente per portare a termine questo compito:

Der verfasser dieser übertragungen dachte nie an einen vollständigen umguss der Göttlichen Komödie: dazu hält er ein menschliches wirkungsleben kaum für ausreichend.8

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In questo saggio vorrei concentrarmi soprattutto sulle traduzioni di George e di Borchardt, rivolgendomi occasionalmente anche ad altre traduzioni se necessario per meglio apprezzare il valore di una data soluzione linguistica. Dovendo operare selettivamente, mi sembra adeguato prendere come esempi alcuni versi del Canto I dell’Inferno, il canto che, senza dubbio, è noto a chiunque.

Comincio con l’incipit:

      Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
      Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
      Tant’è amara che poco è piú morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

Per avere un punto di riferimento, ecco la traduzione romantica di August Wilhelm Schlegel:

Als ich die Bahn des Lebens halb vollendet,
      Fand ich in einem dunklen Walde mich,
      Weil ich vom graden Weg mich abgewendet.
Es fällt mir hart, zu sagen, wie der wilde,
      Verwachs’ne, rauhe Wald beschaffen war,
      Denn noch erschrickt mein Geist vor seinem Bilde.
An Bitterkeit kommt er dem Tode nah;
      Doch um des Heils, das ich darin gefunden,
      Will ich das Andre melden, was ich sah.

George traduce così9:

Es war inmitten unsres wegs im leben ·
Ich wandelte dahin durch finstre bäume
Da ich die rechte strasse aufgegeben.

Wie schwer ist reden über diese räume
Und diesen wald · den wilden rauhen herben..
Sie füllen noch mit schrecken meine träume.

So schlimm sind sie dass wenig mehr ist sterben.
Doch schildr ich alle dinge die mir nahten
Ob jenes guts das dort war zu erwerben.

Ecco la versione di Borchardt10:

In mitten unseres lebens an der fahrt
      erfand ich mich in einem finsteren hagen,
      dass ich der rechten strassen irre ward:
Ach harter pein, und wem er glich, zu sagen,
      der hagen, ein wild wald rauch und ungeheure,
      der an gedanken mir erneut das zagen!
Tod ist viel saurer nicht denn seine säure!
      doch kund zu thun, was heils ich dort empfieng,
      sag ich, was mehr mich traf von abenteure:

Dal punto di vista formale, si può constatare che sia George che Borchardt riproducono fedelmente lo schema delle terzine: aba bcb cdc … Questa è una decisione abbastanza eccezionale. August Wilhelm Schlegel rinuncia alla concatenazione delle terzine per avere più libertà; lo schema delle rime da lui creato è questo: axa bxb cxc. I grandi traduttori dell’Ottocento, Witte e Philalethes, preferiscono i versi sciolti. I traduttori del Novecento, Vossler, Wartburg, Gmelin, li seguono in questo punto. Ecco la spiegazione di Vossler:

Dieses Reimschema: a b a, b c b, c d c … x y x, y. bedeutet in der an Reimen, besonders an Endungsreimen so reichen italienischen Sprache viel eher eine Anregung als eine Fessel. Im Deutschen, wo die Reime selten und bedeutungsvoll stammbetont sind, verhält es sich umgekehrt. Was sich im Italienischen so leicht, so beiläufig und musikalisch ergibt, wirkt schwer, nachdrücklich und verpflichtend im Deutschen, wo nicht gar gezwungen.11

Pur ammettendo che Vossler abbia ragione per quanto riguarda il numero delle rime che esistono in tedesco e in italiano, si deve nondimeno constatare che alcuni poeti come George e Borchardt sono riusciti a tradurre la Divina Commedia in terzine tedesche. Non è dunque materialmente impossibile.

L’endecasillabo italiano è trasformato dai traduttori tedeschi in un metro con cinque accenti nel quale predomina un ritmo giambico. Questa non è una scelta arbitraria poiché nella metrica tedesca non vengono contate le sillabe, bensì gli accenti, mentre il numero delle sillabe non accentuate può essere variabile. Si tratta dunque di due traduzioni poetiche che rispettano le leggi della versificazione e cercano di creare una struttura poetica equivalente a quella dantesca.

Ora, si sa che un testo poetico stricto sensu è intraducibile perché è impossibile tradurre esattamente ogni valore (semantico-lessicale, sintattico, morfologico, fonetico, ecc.) del tessuto linguistico creato dal poeta. Per esempio, “selva” in tedesco si dice “Wald”. La denotazione delle due parole è più o meno identica, ma foneticamente un sostantivo con due sillabe, parola piana aperta, si oppone ad un sostantivo monosillabico chiuso. Le due parole hanno una vocale in comune, l’“a”, ma solo in tedesco l’“a” è accentuata: “Wald” vs. “selva”. Per quanto riguarda le consonanti, anche queste sono solo parzialmente identiche (la “l” e la “v”), il loro ordine è invertito, la “s” si oppone alla “d”, che del resto si pronuncia “t”, ecc. ecc. Non accenno neanche al valore connotativo delle parole “selva” e “Wald”, né alle relazioni semantiche che crea il testo dantesco tramite l’identità del materiale fonetico in “selva selvaggia” oppure nelle rime “oscura” – “cosa dura” – “paura”. La somma di queste relazioni, cioè la struttura del testo, nella quale ogni relazione contribuisce alla costituzione del senso, non può venir tradotta esattamente. Sarebbe dunque facilissimo mostrare le deviazioni e le ‘deficienze’ di ogni traduzione, tanto più trattandosi della Divina Commedia, il testo più complesso e più difficile della letteratura italiana. Ma sarebbe assurdo farlo. Per giudicare una traduzione bisogna osservare l’interrelazione delle dimensioni del testo creato dal traduttore. Bisogna analizzare due testi, l’originale e la traduzione, e poi paragonare i risultati. Non si sostituiscono gli elementi all’interno di una data struttura, ma è l’intera struttura a venir sostituita (da un’altra). In questo modo la traduzione può considerarsi come “accesso privilegiato al testo poetico originale”12. La lettura parallela di un testo poetico e della sua traduzione rende più chiaro sia il testo originale che la traduzione.

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Considerando dunque la prima terzina, che cosa si constata paragonando le traduzioni di George e di Borchardt al testo dantesco? Tutt’e due riproducono la correlazione tra sintassi e verso: i tre versi sono tradotti assai fedelmente, le frontiere dei versi vengono rispettate. Nondimeno ogni traduzione cambia leggermente la struttura sintattica. George trasforma la frase principale dantesca dei vv. 1–2 in due frasi principali indipendenti: “Es war…”, “Ich wandelte…”. Da questo cambiamento risulta un effetto di sconnessione. Borchardt sostituisce la frase esplicativa del v. 3 con una frase consecutiva. Il fatto dello smarrirsi appare come l’effetto causato dal ritrovarsi nella selva oscura, mentre nel testo italiano il v. 3 può considerarsi come una spiegazione di quello che precede. A questo punto il traduttore interpreta il testo originale, cambiando le relazioni logico-sintattiche (non era necessario dire “dass”, poiché “da” avrebbe salvaguardato la struttura metrica). Anche a livello lessicale si riscontrano dei cambiamenti: George rende la “selva oscura” con “finstre bäume”, ossia con metonimia. Borchardt ugualmente si serve di una metonimia: “fahrt” invece di “cammin”. Ma semanticamente le traduzioni non si allontanano molto dal testo originale.

La caratteristica più evidente del testo di Borchardt è la sua tendenza arcaizzante: “erfand” invece di “fand”, “hagen” invece di “Wald”, “ein wild wald rauch und ungeheure” invece di “ein wilder wald, rauh und ungeheuer”, ecc. Questi arcaismi che si trovano anche a livello sintattico (cf. l’uso del genitivo: “Ach harter pein”, “was heils”, ecc.) e morfologico (“empfieng”, “fieng”) fanno parte di una strategia di deautomatizzazione. Borchardt crea un linguaggio arcaico-poetico con elementi linguistici propri dell’epoca di Dante. Non è un mittelhochdeutsch autentico, bensì la costruzione poetica di un linguaggio che avrebbe potuto essere quello di Dante se egli avesse scritto in tedesco. La distanza linguistica risentita inevitabilmente da chi oggi legge Dante nel testo italiano viene così resa evidente al lettore tedesco.13

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Continuiamo l’analisi con la seconda e la terza terzina. La seconda terzina parla della difficoltà di descrivere un’esperienza che continua a far paura a chi la rammenta. All’inizio si presenta l’interiezione “Ahi”, il cui valore espressivo Borchardt rende più direttamente (“Ach harter pein”) di George (“Wie schwer ist reden…”). Un altro elemento importante della terzina è la “selva selvaggia e aspra e forte”, cioè la serie di aggettivi che caratterizzano la “selva” come luogo pericolosissimo. Il valore espressivo di questo sintagma è rafforzato dalla quasi-identità fonetica di “selva” e “selvaggia”. In tedesco la figura etimologica non può essere riprodotta esattamente, ma esiste la coppia paronomastica “wild”/“wald”. Sia George (“Und diesen wald; den wilden rauhen herben..”) che Borchardt (“der hagen, ein wild wald rauch und ungeheure”) se ne servono. La sintassi e la fonetica dei vv. 4/5 sono estremamente ‘aspre’ (interiezione, tre sintagmi brevissimi, allitterazione: “quanto” … “qual”, iperbato: “qual era è cosa dura | esta selva”). Mentre nella versione di George l’asprezza si perde a favore di una sintassi ‘fluida’ (“Wie schwer ist reden über diese räume | Und diesen Wald”), Borchardt, con una sintassi assai confusa, crea un effetto analogo a quello del testo di Dante (“Ach harter pein, und wem er glich, zu sagen | der hagen”). Mentre in Dante sussiste la quasi-identità fonetica di “selva” e “selvaggia”, Borchardt crea una rima interna “sagen”/“hagen” che arricchisce il testo di un valore espressivo. L’‘inconveniente’ della sua soluzione è la vaghezza della struttura sintattica. Della “selva selvaggia e aspra e forte” si dice “che nel pensier rinova la paura”, cioè che continua a far paura al narratore che si situa a una distanza temporale dall’avvenimento ricordato e narrato. George traduce “pensier” metonimicamente con “träume”, rafforzando la nozione di paura, mentre Borchardt rispetta la letteralità del testo (“der an gedanken mir erneut das zagen”).

Nella terza terzina è George che sceglie la traduzione letterale (“So schlimm sind sie dass wenig mehr ist sterben”) mentre Borchardt s’allontana metonimicamente dal testo, sostituendo “amara” (“bitter”) con “sauer” (“acido”) e invertendo l’ordine degli elementi (“morte” e “amara”/“sauer”). Nei vv. 8/9 s’introduce un aspetto completamente nuovo dopo tanti elementi negativi (“selva oscura”, “cosa dura”, “paura” ecc.), cioè il “ben ch’i’ vi trovai”, tradotto con “guts das dort war zu erwerben” (George) e con “was heils ich dort empfieng” (Borchardt). Sintatticamente si osserva l’inversione dei vv. 8 e 9 in George, probabilmente dovuta alla rima (“nahten”, v. 8, “hingeraten”, v. 10, “offentaten”, v. 12); Borchardt rispetta l’ordine originale. I due autori si allontanano dal testo nel v. 9, traducendo “l’altre cose ch’i’ v’ho scorte” con “alle dinge die mir nahten” (George) e con “was mehr mich traf von abenteure” (Borchardt). La traduzione di Schlegel era più fedele: “Will ich das Andre melden, was ich sah.” La parola “abenteuer” (“avventura”) non mi pare affatto adeguata poiché appartiene al campo semantico della letteratura arturiana, un genere letterario estraneo all’interesse di Dante14.

A questo punto vorrei considerare i vv. 22–27, cioè quello che si potrebbe chiamare un “paragone epico”, struttura sintattica complessa che si estende su due terzine:

E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
      cosí l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

George15:

Und wie ein mann der sich herausgezogen
Schwer-atmend an das ufer aus den riffen
Und umdreht nach den fährlich wüsten wogen:

So wandte sich mein geist im fliehn begriffen
Noch einmal rückwärts um die bahn zu schauen
Die nimmermehr lebendige durchschiffen.

Borchardt16:

Und als ein mann, schier odemes verschmachtet,
      heil aus dem wilden wog zur lände strebend
      her umgekehrt die wassers not betrachtet:
So mein gemüete, annoch in flüchten schwebend,
      verkehrte sichs, und maass die bahn hinwieder –
      die selbe liess noch nie, was käme, lebend.

In queste due terzine Dante s’ascrive un’identità ‘post-catastrofica’; il suo animo ci appare come un naufrago sopravvissuto, cioè egli ha attraversato la “valle” della “selva oscura” e comincia a salire su un “colle”. È dunque riuscito a scampare alla minaccia della morte. I due termini di paragone sono il naufrago (“quei che con lena affannata, | uscito fuor del pelago a la riva”) e “l’animo” del viandante. George traduce assai letteralmente “ein mann der sich herausgezogen | Schwer-atmend an das ufer aus den riffen” (con la metonimia “riffe”, “scogli”, invece di “pelago” che giustamente sottolinea l’idea del pericolo) e “mein geist” (con l’elegante frase participiale “im fliehn begriffen” invece della relativa dantesca). D’altra parte, il parallelismo “si volge” | “si volse” non è mantenuto, ma viene sostituito da una coppia di sinonimi: “umdreht” | “wandte sich”. L’idea dell’estremo pericolo al quale il viandante è eccezionalmente riuscito a scappare, viene espressa dall’avverbio di negazione “nimmermehr” con gran valore affettivo. In questo caso risulta evidente l’aspetto problematico della traduzione di Borchardt: il suo testo non è facile da capire. Gli elementi che ostacolano la comprensione sono: 1) la congiunzione “come”, tradotta con “als” invece di “wie”; 2) la costruzione participiale “schier odemes verschmachtet” (“con lena affannata”), con un genitivo non meno arcaico della parola “odem” (invece di “atem”); 3) il genere maschile (“der wog”) invece del femminile (“die woge”); 4) parole e locuzioni inusitate (“lände”, “annoch”, “maass die bahn hinwieder”); 5) cambiamento della struttura sintattica (v. 27: frase indipendente invece della relativa dantesca). Nondimeno la sua traduzione è assai corretta/adeguata, specialmente la sostituzione del participio passivo (“uscito fuor del pelago”) dall’attivo (“heil aus dem wilden wog zur lände strebend”), poiché così viene sottolineata la contemporaneità delle due azioni, cioè dell’uscir fuori dal pelago e del volgersi indietro. Questa contemporaneità viene espressa da Dante nella seconda terzina del paragone tramite la frase relativa “ch’ancor fuggiva”. Bell’esempio questo di una traduzione che analizza i rapporti sintattici e logici del testo e li rende più espliciti.

Per finire questa breve analisi comparativa, vorrei considerare l’incontro con Virgilio:

Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
      Quando vidi costui nel gran diserto,
Miserere di me”, gridai a lui,
“qual che tu sii, od ombra od omo certo!”.
      Rispuosemi: “Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
      Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
      Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.
      Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?”

George17:

Da ich so stand an niedren ort vertrieben
Hat meinem blick sich Einer dargeboten
Der schien durchs lange schweigen stumm geblieben.

Ich sah im grossen ödland diesen boten..
Erbarm dich meiner! rief ich zu ihm bange ·
Seist heiler mensch du · seist du von den toten.

Er gab zurück: Kein mensch · mensch war ich lange
Und meine ältern Mantuaner städter
Mit namen beide von lombardischem klange.

Ich kam zur welt sub Julio · doch als Später..
Ich lebt in Rom an des Augustus throne
Als man für götter hielt der lüge väter.

Ich war ein dichter und vom frommen sohne
Anchises’ sang ich – jener nach dem falle
Des stolzen Ilion aus der stadt entflohne.

Doch warum kehrst du um zum untern walle
Und klimmst nicht auf zum schönen bergeshorne ·
Ursach und anfang für die freuden alle?

Borchardt18:

Die weil ich scheiternd ward in feigen grund,
      stund mir fürn augen Einer, der wie blöde
      von schweigen, das ihm lang verschloss den mund:
Ich blickte auf ihn, und in der grossen öde:
      „Erbarm dich mein!“ so schrie ich an sein ohr,
      „ob wahr du seist, ein mensch, ob spuk und schnöde!“
Er sprach: „Nicht mensch ich; aber mensch hie vor;
      und beiderhalben von Lombarden vätern;
      die kamen mir aus Mantua empor;
Zu Julii zeiten, ob zwar seinen spätern,
      geborn; und lebte in Rom zur zeit des guten
      August, da götzen logen ihren betern.
Poêta war ichs, und den frommgemuten
      Anchîses sohn besang ich, dass er kam
      von Troje, da es die hochfahrt galt mit gluten.
Doch du, was kehrst du rück in solchen gram?
      was steigst du nicht den berg der hohen wonnen,
      dan alle sälde grund und ursprung nahm?“

Per la prima volta nel testo della Commedia Dante utilizza qui il dialogo, cioè il discorso diretto dei personaggi. Con questo procedimento, che avrà un’importanza fondamentale nella Commedia, è possibile caratterizzare individualmente i personaggi. Si distaccano a prima vista nel dialogo tra Dante e Virgilio due elementi latini, “Miserere di me” e “Nacqui sub Iulio”. Questi elementi hanno la doppia funzione di avvicinare i personaggi e, al contempo, di distinguerli. Ambedue parlano e capiscono il latino, la lingua dei litterati. Ambedue sono poeti, Dante dirà poi a Virgilio: “Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore” (v. 85). Ma il verbo “miserere” fa parte del registro della religione cattolica, mentre “sub Iulio” rinvia all’epoca precristiana, cioè al “tempo de li dèi falsi e bugiardi”. In questi due elementi latini intersparsi nel testo italiano si manifesta dunque una delle opposizioni principali della Commedia, redenzione vs. dannazione. Per il traduttore sarebbe pertanto importante rispettare la struttura bilingue del testo. Ora, come procedono i nostri traduttori? George traduce il “miserere” in tedesco (“Erbarm dich meiner”), mentre lascia intatto “sub Iulio”, creando così un’asimmetria. Borchardt traduce “Erbarm dich mein” e “Zu Julii zeiten”, eliminando quasi ogni traccia latina. Entrambe le scelte comportano comporta senza dubbio una perdita. Ma a un’analisi più attenta ne risulterà una sorta di compensazione.

Nella versione di George c’è un sostantivo che non si trova nel testo originale, cioè “bote” (“messaggero”) – Dante dice semplicemente “costui nel gran diserto” per accennare a Virgilio. Si potrebbe parlare di una traduzione arbitraria. Ma se consideriamo il testo della Commedia nella sua totalità, è facile capire che si tratta di un’anticipazione poiché Virgilio servirà da “guida” (v. 113) a Dante. E nella sua funzione di guida non è indipendente ma agisce secondo la volontà divina, rappresentata da tre donne (Beatrice, Lucia e la Vergine). Dunque si può dire che Virgilio ha la funzione di messaggero divino, di angelo (in greco, “angelos” significa “messaggero”). Se da un lato dunque la traduzione tralascia una connotazione del significato, dall’altro aggiunge un elemento che nel testo originale è solo implicito. Anche al livello delle rime George riesce ad ‘arricchire’ la sua traduzione tramite la corrispondenza “boten” | “toten”; Virgilio è un messaggero che viene dal regno dei morti. Questo rapporto è reso ‘udibile’ dalla traduzione.

La versione di Borchardt si distingue soprattutto per la tendenza a oltrepassare la frontiera dei versi (v. 70–5), cioè il traduttore crea una serie di quattro enjambements laddove nel testo di Dante se ne trova solo uno (“quel giusto | figliuol d’Anchise”). Da questo risulta un ritmo irregolare che si potrebbe interpretare come lo stile di un uomo che “per lungo silenzio pareva fioco” e che adesso ricomincia, con difficoltà, a parlare.

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Per finire, un brevissimo riassunto di quanto esposto fin qui. Malgrado il pregiudizio secondo il quale la poesia in generale e la Divina Commedia in particolare sarebbero intraducibili, quest’ultima dal Settecento in poi è stata tradotta in tedesco – sia parzialmente che completamente – più di centosettanta volte. Ciò significa che la ricezione della Commedia in Germania è sì tardiva, ma importantissima. Non solo i romantici ma anche i filologi dell’Ottocento hanno contribuito in maniera decisiva a questa ricezione. Così, la prima edizione critica della Commedia è quella di Karl Witte (1865). Nel Novecento la pratica delle traduzioni è stata portata avanti sia da alcuni dei più grandi filologi (Vossler, Gmelin, Wartburg) sia da due grandi poeti: George e Borchardt. La nostra analisi selettiva del primo canto dell’Inferno ci ha mostrato alcuni dei vari aspetti che possono risultare interessanti trattandosi qui di una traduzione poetica.

Concludendo, posso affermare che una traduzione non può mai essere identica al testo originale, né conservarne le informazioni nella loro interezza. Queste, tuttavia, vengono riadattate; determinati elementi possono essere tralasciati o rafforzati. Una buona traduzione può avvicinarsi al testo, può imitarne (nel senso di “nachbilden”) le strutture principali, può costituirne una preziosa interpretazione. La traduzione è un genere ibrido; da una parte deve sostituire il testo originale per chi non ne capisce la lingua (altrimenti sarebbe superfluo tradurre il testo), dall’altra una traduzione dimostra il suo valore soltanto quando la si accosta al testo di base e viceversa; una buona traduzione mette in luce la qualità poetica dell’originale, valorizzandone la polisemia.


  1. Ringrazio Chiara Polverini, Dorothee Gomille e Silvia Riccardi per il prezioso aiuto stilistico e bibliografico che mi hanno portato nella stesura di questo saggio.

  2. Hans Rheinfelder, “Dante in Germania”, in Rheinfelder, Dante-Studien (Köln e Berlin: Böhlau, 1975), 176–91, 188: “Abbiamo in Germania fino adesso più di settanta traduzioni di tutta la Divina Commedia”; Esther Ferrier, Deutsche Übertragungen der ‘Divina Commedia’ Dante Alighieris 1960–1983 (Berlin e New York: De Gruyter, 1994), 1, parla di “più di cinquanta traduzioni complete”.

  3. Rheinfelder, “Dante in Germania”, 179.

  4. August Wilhelm Schlegel, “Dante: ueber die göttliche Komödie” [1791], in August Wilhelm Schlegel’s Sämmtliche Werke, a cura di Eduard Böcking, vol. III (Leipzig: Weidmann, 1846, Repr. Hildesheim e New York: Olms, 1971), 199–230; si noti che Schlegel nella sua introduzione alla lettura della Commedia ha parafrasato e tradotto brani importanti del testo, 230–381.

  5. “Geschichte der alten und neuen Literatur: Vorlesungen, gehalten zu Wien im Jahre 1812”, in Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, vol. VI, a cura di Hans Eichner (München: Schöningh, 1961), Neunte Vorlesung, 209–28.

  6. Walter Goetz, Übersetzungen von Dantes Göttlicher Komödie ins Deutsche, Sonderdruck aus Historisches Jahrbuch (Freiburg e München: Alber, 1955), 442, citato secondo Ferrier, 12.

  7. Rainer Wuthenow, “Deutscher Dante?”, Neue Deutsche Hefte 90 (1962): 37–54, 45: “Zwei Dichter von seltener Gestalt haben allerdings im 20. Jahrhundert um Dante gerungen und das zuvor Geleistete übertroffen: Stefan George und Rudolf Borchardt.” Ecco alcuni saggi sulle traduzioni di George e di Borchardt: Roger Bauer, “Zur Übersetzungstechnik Stefan Georges”, in Stefan George Kolloquium, a cura di Eckhard Heftrich, Paul Gerhard Klussmann e Hans Joachim Schrimpf (Köln: Wienand, 1971), 160–7; Hans-Georg Dewitz, ‘Dante Deutsch’: Studien zu Rudolf Borchardts Übertragung der ‘Divina Commedia’ (Göppingen: Kümmerle, 1971); Lucia Mancini, “Rudolf Borchardt und Stefan George: Übersetzer von Dantes Divina Commedia”, in Rudolf Borchardt, 1877–1945, a cura di Horst Albert Glaser e Enrico De Angelis (Frankfurt/M.: Lang, 1987), 321–46; Hans-Georg Dewitz, “Rudolf Borchardt: ‘Dante Deutsch’. Zu Aporie und Apologie einer Hybride”, in Rudolf Borchardt, 1877–1945, a cura di Horst Albert Glaser e Enrico De Angelis (Frankfurt/M.: Lang, 1987), 347–65; Dieter Lamping, “‘Was hätte sein können’: Rudolf Borchardts ‘deutscher Dante’”, in Ästhetische Transgressionen: Festschrift für Ulrich Ernst zum 60. Geburtstag, a cura di Michael Scheffel, Silke Grothues e Ruth Sassenhausen (Trier: WVT, 2006), 155–69; Italo Michele Battafarano, “Dante tradotto da George: Francesca da Rimini: traduzione per aemulationem”, in Battafarano, Dell’arte di tradur poesia (Frankfurt/M.: Lang, 2006), 181–212.

  8. Stefan George, Dante: Die Göttliche Komödie. Übertragungen, Sämtliche Werke in 18 Bänden X/XI (Stuttgart: Klett-Cotta, 1988), 5.

  9. George, Dante, 7.

  10. Rudolf Borchardt, Dantes Comedia Deutsch, in Gesammelte Werke in Einzelbänden, a cura di Marie Luise Borchardt (Stuttgart: Klett, 1967), 15.

  11. Dante Alighieri, Die Göttliche Komödie, deutsch von Karl Vossler (Berlin: Atlantis, 1942), 21.

  12. Hermann H. Wetzel, “Traduction et interprétation. La traduction comme accès privilégié au texte poétique original”, in Traduction = Interprétation. Interprétation = Traduction: l’exemple Rimbaud, a cura di Thomas Klinkert e Hermann H. Wetzel (Paris: Champion, 1998), 9–24.

  13. Per il problema del linguaggio arcaizzante creato da Borchardt si vedano gli studi di Dewitz, ‘Dante Deutsch’ e “Rudolf Borchardt: ‘Dante Deutsch’”, Borchardt ne parla nel suo saggio “Epilegomena zu Dante II: Divina Comedia. Konrad Burdach zum siebzigsten Geburtstage” [1929], in Prosa II, a cura di Marie Luise Borchardt (Stuttgart: Klett, 1959), 472–531), 520–31, spiegando che lo scopo della sua traduzione era la “Rückgebärung, rinascimento der eigenen Nationalantike, des europäischen Mittelalters, rinovellato di fronda novella, um es dantisch zu sagen; Rückverwandlung, reformatio, einer aus der Fremde her verschobenen und ausgearteten seelischen Nationalgestalt zur wiederbelebten Urform” (526). Il suo Dante è dunque una finzione retrospettiva: “Ich habe angenommen, ein deutsches Gedicht vom Ende des 14. Jahrhunderts sei in den Formen, die ich auf früheren Seiten angedeutet habe, lebendig immer weiter tradiert und der Sprachwandlung angepaßt worden, wie der Parzival und geringere Romane, schließlich in Drucken der Sprachgestalt des 15., ja des frühen 16. Jahrhunderts angenähert und gegen die Sprache von Luthers ersten Bibelfassungen im großen ganzen ausgeglichen, und es habe schließlich im 20. Jahrhundert den schonenden Überarbeiter gefunden, der es behandelt habe wie ich selber in meiner Ausgabe den ‘Armen Heinrich’.” (530) Per la concezione borchardtiana di Dante come figura medievale si veda Karin Westerwelle, “Borchardts Dantebild”, in Deutsche Italomanie in Kunst, Wissenschaft und Politik, a cura di Wolfgang Lange e Norbert Schnitzler (München: Fink, 2000), 65–84.

  14. Per quanto riguarda una conoscenza possibile della letteratura arturiana da parte di Dante, si veda Karlheinz Stierle, “‘A te convien tenere altro vïaggio’: Dantes ‘Commedia’ und Chrétiens ‘Contes del Graal’”, Romanistische Zeitschrift für Literaturgeschichte 25 (2001): 39–64.

  15. George, Dante, 7–8.

  16. Borchardt, Dantes Comedia Deutsch, 15.

  17. George, Dante, 9.

  18. Borchardt, Dantes Comedia Deutsch, 17.





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